Redazione
Guido d’Arezzo fu un geniale didatta medioevale. Apportò cambiamenti cruciali al modo di memorizzare la musica, introducendo soprattutto la possibilità della lettura a prima vista. Tuttavia queste straordinarie novità non sono solo frutto di intuizione ma anche di una lunga, lenta e graduale stratificazione di tentativi volti a trovare soluzioni sempre più efficaci all’esecuzione canora. Elia Bertolazzi con lo sguardo attento dello storico e la chiarezza tipica del divulgatore, accompagna il lettore in questo processo, sottolineando anche le false credenze che accompagnano la fama di questo celebre personaggio, divenuto ad un certo punto leggendario.
L’XI d.C. è stato un secolo catalizzante per la Storia della Musica. In tutta l’antica Europa cristiana, nelle chiese e nei monasteri, venivano intonati dei canti liturgici. Sulla loro precisa esecuzione, però, rimangono numerose ombre. Da quasi due secoli esistevano dei sistemi di notazione musicale ma affinché questi fossero compresi e decifrati, era necessario l’intervento di un maestro cantore. Quel tipo di scrittura era sposato con la memoria e la capacità di lettura a prima vista non esisteva ancora.
Qui entra in gioco Guido il Monaco, un benedettino divenuto celebre per l’enorme mole di innovazioni ideate attorno alla pratica musicale. Molto di ciò che sappiamo deriva dai suoi stessi scritti, la sua fama fu grande e si espanse nella penisola italica e Oltralpe. Ciò portò, inoltre ed inevitabilmente, anche ad incomprensioni e false attribuzioni.
Per capire che cosa fece questo monaco di così importante approfondiamo brevemente il contesto storico-musicale che lo ha preceduto.
Durante l’Alto Medioevo prese vita quello che chiamiamo Canto Gregoriano. Si tratta di una musica sacra che trova la sua forma embrionale in epoca Carolingia, attraverso l’unione del rito gallicano (dei Franchi) con quello Romano. Nello stesso periodo, su per giù nel IX secolo, troviamo anche le prime forme di notazione musicale, specie quella neumatica, a cui Guido, due secoli dopo, rimarrà molto legato. La comparsa della notazione tuttavia non sostituì il modo in cui veniva tramandato il repertorio, ovvero con la presenza di un maestro e il bisogno di ricordare tutto a memoria. Quest’ultimo punto richiama delle questioni non indifferenti.
Stiamo parlando di un tipo di musica legato all’anno liturgico, composto da moltissimi brani per soddisfarne l’intero ciclo. Su per giù se ne contano tremila, ovvero circa ottanta ore di musica. Si capisce bene che, se tutto questo doveva essere memorizzato dai coristi e a sua volta trasmesso alle nuove generazioni, l’impresa didattica era notevole. Non dobbiamo dimenticare inoltre che tramandare con compattezza una mole sonora simile diventava ancora più impervio nella pluralità e sconfinatezza del territorio europeo.
Sullo stesso territorio, contemporaneamente, era attivo il movimento di uniformazione guidato da Carlo Magno: scrittura, lingua e idee normative venivano diffuse, ma per la musica il processo di omogeneità era più complicato. Abbiamo ricordato la nascita della notazione su per giù coeva ma questa non garantiva ancora una gestione fissa dei suoni.
I neumi mostravano la direzione del canto ma, come già detto, era necessario un maestro per educare alle norme musicali e in particolare per insegnare la cospicua raccolta di canti. Quei particolari segni neumatici che dal IX secolo iniziamo a trovare sopra i testi degli antifonari e graduali non garantivano quindi la lettura autonoma ed era necessario ascoltare un brano da chi già lo conosceva.
Con questa doverosa premessa possiamo fare entrare in gioco Guido d’Arezzo e le sue trovate didattiche. Grazie al suo operato si apre la strada per la lettura della musica a prima vista.
Al monaco Guido viene attribuita l’ideazione del Tetragramma. Questo non è del tutto vero, ma ciò che è certo riguarda l’uso che ne fece in campo didattico. Le note venivano ancora marcate con quei segni chiamati neumi, tuttavia essi, venendo posti sui dei righi, rendevano possibile l’identificazione dell’intervallo, ovvero della distanza tra un suono e l’altro. In questo si inizia ad intravedere uno spartiacque rispetto alla precedente epoca.
In uno dei suoi testi superstiti, il Prologo ad un Antifonario, Guido esaltò tale pratica di notazione su rigo. Il Benedettino però non si fermò alla scrittura, ideò un metodo che prevedeva la conoscenza degli intervalli attraverso vari espedienti volti alla memorizzazione dei suddetti. Tale pratica portò ad apprendistati molto più efficienti per i giovani esecutori. Dalla sua lettera al confratello Michele apprendiamo che un cantore, prima delle innovazioni guidoniane, per essere formato al canto e all’intero repertorio impiegava circa dieci anni. Guido, inoltre, specifica in più occasioni come tale preparazione non fosse ben fatta. Invece, presso il vescovado di Arezzo, Guido e la sua scuola preparavano con ottimi risultati i giovani cantori in due soli anni, talvolta solo in uno. Il metodo guidoniano rendeva possibile ciò che prima risultava burrascoso ed impensabile, ovvero la lettura a prima vista. I quattro righi del Tetragramma si presentavano con le linee relative al Do (C) e al Fa (F) con colori differenti, proprio per rendere immantinente l’altezza del suono da intonare. Attraverso svariati esercizi di intonazione, inoltre, il metodo permetteva la memorizzazione degli intervalli.
Queste innovazioni, che qui paiono miracolose e frutto di un’intuizione straordinaria, viste col microscopio storico si rivelano essere parte di un processo di vicende che le hanno rese possibili. Per estensione si tratta del sempiterno dilemma degli innovatori. Ad esempio: Raffaello Sanzio fu un genio della pittura Rinascimentale o una ragionevole conseguenza delle innovazioni in campo tecnico e pittorico che lo hanno preceduto? Entrambe le opzioni sono corrette. Parallelamente la stessa riflessione riguarda Guido d’Arezzo ed invita ad analizzare il contesto che lo precedette.
Nel IX secolo d.C., duecento anni prima di Guido, mentre fioriva la notazione neumatica volta ad aiutare il cantore nell’esecuzione, sempre in ambito carolingio veniva scritto Musica Enchiriadis, un manuale passato alla storia per la presenza delle prime tracce di polifonia. La notazione ideata in questo trattato è la cosiddetta dasiana. Senza entrare nei dettagli ricordiamo che essa prevede dei righi ed il posizionamento dei testi su di essi, in modo che l’intervallo da intonare sia evidente.
Si può dedurre che la ricerca di un tipo di scrittura chiara ed evidente esisteva già prima di Guido.
Gli stessi neumi gradualmente iniziano a presentarsi attraverso un andamento che suggerisce sempre di più l’altezza del suono. Ne sono un esempio quelli della tradizione aquitana.
Proseguendo, alla scrittura neumatica venne aggiunto un rigo, poi due fino a quattro. Bisogna tuttavia rimarcare che non in tutti i monasteri d’Europa furono accolte tali innovazioni. Di certo quest’ultima obiezione non valse per la Basilica di Arezzo, all’epoca posizionata sul Colle del Pionta. Qui Guido il Monaco raccolse le tradizioni sorte negli ultimi secoli, sintetizzando il suo nuovo metodo. Conosceva anzitutto Musica Enchiriadis ed utilizzava la notazione neumatica. Il Tetragramma usato da Guido e dai suoi contemporanei è la conciliazione delle due forme di scrittura: notazione neumatica e dasiana. La volontà e le idee del monaco benedettino però andarono oltre, rendendo la scuola aretina un luogo speciale. La chiarezza con la quale operò, in particolare gli eccellenti risultati raggiunti con i suoi allievi, lo resero celebre e la sua fama raggiunse Roma. Guido fu invitato dal Pontefice Giovanni XIX per raccontare e dimostrare il proprio metodo didattico. Secondo il monaco, rendere più leggero ed agibile lo studio del canto e del repertorio “gregoriano” avrebbe inoltre permesso di dedicare più tempo alla preghiera. Come già detto presso Arezzo si preparavano le nuove generazioni in soli due anni rispetto ai consueti dieci.
La rivoluzione di Guido potrebbe quindi sembrare la perfetta sintesi delle ricerche in ambito di scrittura musicale che lo hanno preceduto. Tuttavia l’innovazione e la diffusione del suo metodo comporteranno la perdita di sfumature espressive che erano prima tenute vive dalla trasmissione orale. Ne sono un esempio le “note liquescenti” che il Monaco descrive nel suo Prologo ad un Antifonario:
“[…] nel momento in cui le note da intonare (voces) diventano fluide (liquescere) e suonano ora unitamente, ora divise (discretae), che sono ora lente, ora tremule, o accentuate in modo improvviso, oppure divise in segmenti separati dal respiro come una cantilena, o che una vox rispetto alla precedente sia più grave o più acuta o che abbia lo stesso suono, è mostrato semplicemente dalla configurazione dei neumi, se sono messi insieme in modo diligente, come dovrebbe sempre essere”.
Ciò che Guido esplicita riguarda l’uso dei neumi e delle cosiddette note liquescenti. Quest’ultime sono passaggi difficilmente notabili con la novella forma di scrittura. Infatti, la notazione su rigo ha permesso di fissare le note in posizioni precise, ma questa rigidità, col tempo, ha fatto dimenticare quella modalità di canto tramandata oralmente e in parte tracciata dai neumi. Qui emerge, di conseguenza, la complessità odierna nella ricostruzione della musica antica. La didattica guidoniana era in ogni caso efficace ed efficiente e si diffuse capillarmente. Oggi si può affermare che presso Arezzo lo slancio pedagogico guidoniano influenzò la storia della musica occidentale.
Le idee di molti geni della Storia sono state supportate da committenze illuminate. Nel caso di Guido si ricorda l’operato del Vescovo di Arezzo Teodaldo. Egli consentì al Benedettino di dare forma concreta alle sue idee. Prima di Arezzo Guido si trovava presso l’Abbazia di Pomposa, nel Ferrarese. Qui, come scrive il monaco nella sua epistola a Michele, l’ambiente era rigido, conservatore e poco aperto alle innovazioni. Come detto, ad Arezzo Guido trovò un contesto favorevole e dedicò proprio al Vescovo Teodaldo il suo trattato più celebre, il Micrologus.
Proseguendo con la trattazione riguardo alle innovazioni guidoniane, raggiungiamo quella che probabilmente è la più celebre e fortunata.
Nella già citata Epistola Guido scrive che per consentire ai propri allievi una più semplice memorizzazione degli intervalli utilizzava un vecchio Inno rivolto a San Giovanni, Ut Queant Laxis. Ogni prima sillaba dell’Inno era legata ad una diversa altezza del suono, tutti organizzati in senso crescente. Da qui Ut, Re, Mi, Fa, Sol e La. È bene rimarcare che per riferirsi ai nomi delle altezze “reali” dei suoni Guido utilizzava ancora le lettere dell’Alfabeto, come da tradizione. Queste sillabe venivano quindi usate come esercizio di lettura, chiamato Solmisazione. Il passo è spesso travisato per via dell’uso delle 6 sillabe anziché 7.
Per Guido, seguendo l’antica tradizione che porta al teorico Boezio e così via fino al mondo Greco, le note tra un’ottava e l’altra erano 7. Tuttavia l’esercizio che proponeva si basava sulla pronuncia di sole sei sillabe, da cui il nome Esacordo. I motivi sono molti, ma si trattava di un esercizio propedeutico alla memorizzazione degli intervalli. Guido educava i propri discepoli ad ascoltare con attenzione i vari passaggi dell’inno. Come detto ogni prima sillaba dell’inno (Ut, Re, Mi, Fa, Sol, La) veniva intonata secondo una successione diatonica. L’allievo, in questo modo, ogni qual volta che si ritrovava di fronte ad un passaggio tra una nota e l’altra, poteva pensare all’inno per ricordarsi la corretta intonazione degli intervalli. Queste sillabe si trovano collocate anche sulla ormai prossima Mano Guidoniana.
Anche in questo caso la Mano rappresentata non si può attribuire a Guido d’Arezzo, benché l’aggettivo “Guidoniana” sembri suggerirlo. Tuttavia si pensa che questa pratica sia una naturale conseguenza delle teorie del monaco aretino. Un discorso analogo riguarda le tre tipologie di esacordo (naturale, mollo e duro). Trattasi in ogni caso di pratiche volte alla formazione dei cantori.
Concludendo si evidenzia come le scuole di canto relative alla sfera liturgica si siano diversificate nel corso del Medioevo. Durante l’XI secolo, specie attraverso Guido d’Arezzo, la musica diviene sempre più un’arte autonoma con esigenze proprie. Fino a quel momento l’esecuzione del repertorio era affidata ad espedienti non pienamente autonomi: maestro cantore e notazione neumatica. Grazie al lavoro di Guido diviene possibile apprendere la musica direttamente leggendo. La scrittura diviene sempre più precisa. Il metodo didattico di Arezzo fece breccia portando il Benedettino al riconoscimento. Guido diviene il nuovo teorico medievale di riferimento. Come fino a quel momento lo era stato Severino Boezio. Dietro la fama di Guido si andarono a costruire dicerie e false attribuzioni, probabilmente perché l’eco di tale teorico era ormai divenuto leggendario. Oggi le note le chiamiamo come quell’esercizio che Guido proponeva ai suoi allievi. Omaggio ad una delle menti più interessanti del panorama didattico musicale antico. Questi sono tutti piccoli passi all’interno di una sorprendente Storia della Musica.
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Testo chiaro e comprensibile pur nella complessità della storia del canto, cioè della musica; lo stimolo alla lettura : Guido presso la basilica di Pomposa