REDAZIONE
Molti fattori determinano il difficile rapporto della Russia con l’Europa. Tralasciando le complicate e contorte “ragioni” geopolitiche odierne e della recente storia, Federico Mugnai ci accompagna in un excursus storico culturale assai interessante. Pone al centro, come elementi simbolici e sostanziali della storica ambivalenza russa nel rapporto con l’Europa, le due grandi città San Pietroburgo e Mosca, da Pietro il Grande fino ai giorni nostri.
La guerra tra Russia e Ucraina ci spinge, fra l’altro, a riconsiderare il rapporto storicamente contraddittorio e ambivalente tra Russia ed Occidente.
Vi sono stati periodi in cui la Russia ha visto stravolgere il suo assetto socio-politico e ciò ha inciso notevolmente nei rapporti con l’Europa. Lacerata nel corso dei secoli da spinte europeiste, avvicinamenti geopolitici verso l’Asia e velleità di guida religiosa e ideologica per il mondo intero, la Russia sembra non aver saputo trovare una sua collocazione ben definita sullo scacchiere mondiale. Ciò appare già evidente gettando lo sguardo sulla sua collocazione geografica: si può notare infatti come la Russia occupi il confine ad est dell’Europa e può essere considerata un ponte tra il Vecchio Continente e l’Asia. Un confine quello ad est dell’Europa piuttosto ambiguo, in cui si fa fatica a rintracciare un’identità culturale ben definita.
L’emblema del complesso rapporto tra Russia ed Europa e dei tormenti al suo interno, si può riscontrare nella rivalità accesa tra le due città russe più famose e importanti: Mosca e San Pietroburgo. Due città che rappresentavano due stili architettonici opposti, due modi di interpretare la vita, due concezioni della realtà e del rapporto con gli altri popoli così diversi e antitetici che spesso ci si è domandati se San Pietroburgo e Mosca facessero davvero parte dello stesso Stato.
Possiamo dire che la nascita del rapporto e del confronto tra Russia ed Europa si pone con l’europeizzazione voluta da Pietro il Grande fin dall’inizio del suo regno.
Pietro il Grande odiava Mosca, perché vedeva in essa l’emblema della vecchia Russia medievale, con la sua cultura arcaica, il suo provincialismo ed il risentimento misto a timore verso l’Occidente. Per questo desiderava costruire una nuova grande città che fosse non solo la nuova capitale dell’Impero russo, ma rappresentasse il simbolo di una nuova era di trasformazione e di europeizzazione del popolo russo. Fu così che nella Primavera del 1703 all’altezza della foce della Neva sul Mar Baltico, in una zona paludosa e inospitale, Pietro il Grande dispose una croce sul terreno molle e disse: “Qui sorgerà una città.” Così nacque San Pietroburgo, la cui costruzione richiese un lavoro straordinario di migliaia e migliaia di uomini provenienti da tutta la Russia e di altro personale qualificato giunto anche dall’Europa. Date le difficoltà oggettive nella costruzione della città, furono tanti i lavoratori che persero la vita; nonostante questo la forza del progetto ebbe sempre la meglio su qualunque tipo di avversità. Pietro intendeva prendere spunto da alcune città europee tipo Amsterdam e Venezia: la prima l’aveva visitata da giovane, la seconda l’aveva comunque studiata ed ammirata in vari libri letti nel tempo.
Fu concepita come una composizione di elementi naturali, in modo da dare risalto sia all’architettura in stile europeo, sia al paesaggio circostante attraverso argini e canali che componevano la struttura della città. Furono scelte poi delle vie lunghe e larghe, quali ad esempio la Prospettiva Nevskij che dividevano la città, attribuendo ad essa ampiezza e slancio. San Pietroburgo si pose subito come copia artificiale dello stile europeo e a tal proposito il pensatore russo Aleksandr Herzen affermava che la città “differisce da tutte le altre città europee per essere simile a tutte loro.” Per l’imperatore, diventare cittadini di San Pietroburgo voleva dire dimenticare i secoli bui del regno moscovita e abbracciare la modernità europea.
I secoli precedenti l’impero di Pietro avevano infatti visto l’influenza bizantina che aveva lasciato in eredità al popolo russo la fede per la religione cristiano ortodossa, la costruzione di Mosca nel XII secolo e l’occupazione mongola a partire dal 1237. Nel giro di pochi anni, le principali città russe furono infatti conquistate dai tatari-mongoli che per oltre due secoli mantennero il controllo dei territori russi. Fu un’invasione che lasciò un senso di vergogna nel popolo russo, ancora oggi non completamente superato. L’occupazione mongola fu però importante per la successiva struttura dello Stato. I mongoli imposero infatti un sistema amministrativo e fiscale piuttosto centralizzato e sofisticato, che fu preso a modello dallo Stato russo nei secoli successivi. Lasciò inoltre in eredità, specialmente nel mondo contadino, un segno profondo sullo stile di vita russo, con alcuni rituali copiati o comunque simili a quelli tartari. Certamente l’occupazione mongola allontanò la Russia dall’Europa e anche quando ritrovò l’indipendenza, ancora per molto tempo, i contatti con l’Europa furono ridotti al minimo. Il regno della Moscovia, formatosi dopo la ritirata dei mongoli, era infatti una civiltà arretrata, basata su un culto esasperato per la religione ortodossa.
Radicata così profondamente nelle tradizioni spirituali che trovano origine a Bisanzio, in Russia non trovò terreno fertile né l’influenza del Rinascimento e nemmeno la Riforma luterana. La Russia rimaneva ancorata ad una cultura medievale che in Europa era stata archiviata già da tempo. Dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, Mosca si pose come la Terza Roma, perché si considerava l’ultimo baluardo della vera fede cristiana, erede di Roma e Bisanzio e per questo aveva la missione di redimere e salvare l’umanità.
Il mito di Mosca come città che incarnava l’anima del popolo russo, con le sue tradizioni ortodosse, i riti contadini e tutto il risentimento e il disprezzo per l’Europa, considerata il continente degli eretici e dei nemici del popolo russo, era visto come fumo negli occhi da Pietro il Grande. La costruzione di San Pietroburgo rappresentava per lui un grande progetto utopistico che consisteva nel rimodellare il popolo russo come popolo europeo. Diventare cittadini di San Pietroburgo voleva dire lasciarsi alle spalle i secoli bui della Moscovia ed entrare come cittadini russo europeo, nel mondo occidentale. Nel corso di pochi decenni gran parte della nobiltà russa si spostò a San Pietroburgo, assorbendo usi e costumi europei ed iniziando a parlare e scrivere in francese, facendo spesso viaggi in Europa, trovando conforto e piacere in un’educazione cosmopolita.
Anche il mondo intellettuale si interrogò sull’avvicinamento all’Europa conseguente alla costruzione di San Pietroburgo. Per esempio, vi erano intellettuali e scrittori come Puskin, Herzen, Tolstoj e Turgenev che abbinavano il loro essere russi con il riconoscersi nei valori europei. Gli occidentalisti come Herzen, vedevano nell’influenza della cultura europea l’unica possibilità di riscatto per le sorti della Russia, di avvicinamento agli ideali illuministici che avrebbero allontanato il popolo russo da quell’arretratezza non solo sociale, ma anche culturale.
Non mancavano però coloro che erano più critici e scorgevano in San Pietroburgo l’emblema di una città estranea al mondo russo. Dostoevskij nelle “Memorie del sottosuolo” definì San Pietroburgo come “la più astratta e artificiosa città di tutto il globo terrestre.” Anche “Delitto e castigo” dello stesso autore è ambientato a San Pietroburgo, descritta come città irreale, caotica, invivibile, ostile al popolo russo.
I “Racconti di Pietroburgo” di Gogol offrono un ulteriore spunto per rintracciare l’alienazione dei protagonisti, soffocati dall’atmosfera oppressiva della città. Il carattere straniero di San Pietroburgo aveva trovato vasta eco nel popolo. Tra vecchi credenti, cosacchi e contadini iniziò a girare voce che Pietro fosse tedesco e non il vero zar, che tutta la costruzione della città fosse stato un progetto contro il popolo russo. Iniziò a circolare la leggenda che il fantasma di Pietro aleggiasse sulla città, portando con sé iatture e problemi continui. A tal proposito, in chiave satirica, “Il cavaliere di bronzo” di Puskin è l’esemplificazione di questi miti popolari.
Fu comunque con la Rivoluzione francese ed il conseguente Terrore giacobino che il rapporto tra Russia ed Europa si incrinò. Le notizie provenienti dalla Francia rafforzarono i dubbi sul progetto di europeizzazione russo iniziato con Pietro il Grande e proseguito con gli zar successivi. La Francia per molti decenni era stata considerata la Patria del progresso, il punto di riferimento per gli intellettuali e l’aristocrazia russa. Le conseguenze politiche furono un lento e progressivo allontanamento dalla Francia sia a livello governativo, sia nei salotti aristocratici.
L’invasione napoleonica dell’Agosto 1812 ebbe come conseguenza quella di unire il popolo russo: le classi più agiate a quelle meno abbienti. Se fino a qualche decennio fa la Francia era considerata il Paese cui trarre spunto per la Russia, ora era diventato il nemico da sconfiggere. Fu vietato l’uso del francese come lingua scritta e parlata e si andò alla ricerca di uno stile di vita propriamente russo, senza contaminazioni straniere. Quando Napoleone giunse a Mosca, esclamando “Ecco, dunque, questa famosa città!”, la trovò completamente vuota: la popolazione aveva di proposito lasciato la città e quando l’imperatore francese si insediò al Cremlino i russi dettero fuoco alle mura orientali che in breve tempo si espansero lasciando i francesi senza rifornimenti, ostaggi di una città che si stava trasformando in un cumulo di macerie.
Quando il 20 Settembre 1812 le fiamme si spensero, i quattro quinti della città era andato distrutto. Di lì a poche settimane arrivò l’inverno ed i francesi, già stremati per gli scarsissimi rifornimenti, furono costretti alla ritirata grazie soprattutto alla resistenza contadina che combatteva con ogni mezzo (anche semplici falci e attrezzi da campagna) per sconfiggere gli invasori. L’eroismo del mondo contadino assunse i tratti del mito e non furono pochi gli aristocratici, i generali, gli intellettuali e gli uomini di Governo che rimasero piacevolmente colpiti dal patriottismo della gente comune.
Per molti anni dopo il 1812, come narrato magistralmente da Tolstoj in “Guerra e pace”, bisognava riscoprire la vera anima russa, andare verso il popolo e lasciare perdere gli ideali europei. Ed è per questo che i russi iniziarono a riscoprire Mosca, l’antica capitale che per tutto il XVIII secolo era stata lasciata a sé stessa, abbandonata da gran parte della vecchia aristocrazia che si era trasferita a San Pietroburgo. Sempre in “Guerra e pace” Tolstoj scrisse che dopo la trionfale vittoria contro i francesi, ogni russo percepiva Mosca come una madre, simbolo della vecchia Russia, la cui storia risaliva al XII secolo. Ora che Mosca era stata distrutta, si sentiva il bisogno di ricostruirla e renderla ancora più maestosa di qualunque altra città al mondo. Fu ricostruita in parte in stile europeo, mantenendo però un suo aspetto peculiare con influenze asiatiche, dettate anche soprattutto dalla provincia russa circostante. Mosca infatti, a differenza di San Pietroburgo, si trovava nel cuore della Russia, in una posizione intermedia tra l’Europa e la steppa asiatica. Nella città non mancavano riferimenti a costumi, colori e motivi orientali che spesso si mescolavano in una bizzarra alchimia tra Est ed Ovest.
L’edificazione della città divenne motivo di orgoglio e stimolo per un rinnovato risveglio nazionale che interessò tutti i ceti sociali. Molti nobili sentirono il bisogno di donare parte dei loro beni per ricostruire la città e tornare nella vecchia capitale. Come scrive Orlando Figes, “Tolstoj paragonò ciò che avvenne al modo in cui le formiche ritornano al loro mucchietto di terra, trascinando via minuzzoli di rifiuti, di uova e cadaveri, e ripristinando con rinnovata energia la loro vecchia esistenza.”
Tra il 1830 e il 1850 Mosca vide sorgere molti palazzi e Chiese in stile neobizantino, perché lo zar Nicola I desiderava connettere la Russia con le tradizioni orientali di Bisanzio, trovando corrispondenza con l’idea slavofila. Gli slavofili affermavano con decisione le origini slave e cristiane ortodosse del popolo russo, l’ammirazione per il mondo contadino e le vecchie tradizioni russe. Lo scontro tra occidentalisti e slavofili si esprimeva nell’opposizione storica tra San Pietroburgo e Mosca. Se, come abbiamo visto, i primi facevano di San Pietroburgo il loro modello per un’apertura agli ideali europei, i secondi idealizzavano Mosca, come città archetipo dello stile di vita autentico russo che trovava ispirazione nel vecchio mito tardo medievale del Regno della Moscovia. Un dibattito acceso soprattutto tra gli anni 60’ ed 80’ dell’Ottocento che vide protagonisti molti scrittori ed intellettuali, divisi sul destino della Russia ed il suo ruolo nel mondo. Uno scontro anche generazionale che possiamo rintracciare nelle riviste dell’epoca, ma soprattutto in tanti romanzi, tra cui è doveroso ricordare “Padre e figli” di Turgenev, “Che fare?” di Cernysevskij, “I demoni” e “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij. L’emergere del nichilismo, termine coniato da Turgenev in “Padri e figli”, in cui la ribellione giovanile è vista come sfida verso il potere e verso i padri, colpevoli di aver oppresso la vita del popolo con la loro aderenza al regime zarista e al culto ortodosso.
I giovani protagonisti del romanzo di Turgenev non credono in niente, si affidano alla scienza, rifiutano Dio e ogni precetto morale religioso e per questo si definiscono nichilisti. “Che fare?” di Cernysevskij riprende in parte Turgenev, ma va oltre: alla constatazione del nichilismo che si diffonde a macchia d’olio tra i giovani russi, immagina una società futura di stampo prettamente socialista e progressista, in cui tutto sarà in comune e tutti i vecchi miti e tradizioni saranno messi al bando. Un romanzo quello di Cernysevkij, cui prenderà spunto il futuro capo dei bolscevichi e dell’Unione Sovietica, Lenin. A tutto ciò si oppone Dostoevskij che, con i suoi romanzi, evidenzia i pericoli insiti nel nichilismo e nel socialismo. Una società atea, ancorata a principi razionali che hanno lo scopo di regolare la vita della Nazione e portare l’individuo a sradicarsi dalle tradizioni del suolo patrio, sono per Dostoevskij una minaccia per la Russia. Nel romanzo “I demoni”, Satov, un ex socialista convertito alla fede ortodossa, poco prima di morire ucciso dai suoi vecchi amici nichilisti, dice, esemplificando la posizione dello stesso Dostoevskij:
“Credo nella Russia, credo nella sua ortodossia…Credo nel corpo di Cristo…Credo che il nuovo avvento sarà in Russia…Credo…- si mise a balbettare Satov, in preda all’esaltazione.”
Per approfondire la posizione di Dostoevskij (simile a quella degli slavofili) e il suo rapporto con il socialismo, potete consultare il mio articolo Dostoevskij e il socialismo, pubblicato in questo sito.
Intanto che il confronto tra San Pietroburgo e Mosca si faceva più acceso, quest’ultima divenne sempre più un centro economico importante, anche grazie alla costruzione della strada ferrata, che la collegava con le principali città europee. Inoltre negli ultimi decenni dell’Ottocento, l’Impero russo si espanse verso est, verso le steppe asiatiche e ciò comportò un riavvicinamento con la cultura asiatica. La Siberia pian piano fu annessa completamente alla Russia, anche se ciò non apportò grandi benefici economici all’Impero russo, perché molte di quelle terre erano inospitali, a causa del clima eccessivamente rigido. La conquista della Siberia mise al centro la questione del rapporto tra Russia ed Asia. Man mano che l’Impero si estendeva ad est, il baricentro russo si spostava anch’esso ad est e si poneva il problema di trovare un equilibrio tra Europa ed Asia. Dostoevskij intervenne a tal proposito, subito dopo la delusione della guerra russa in Crimea, nella quale Francia ed Inghilterra si erano alleate con gli ottomani contro la Russia. Sosteneva che la Russia non fosse una civiltà asiatica, ma che erano gli europei a dipingerla in quel modo. La Russia avrebbe dovuto abbracciare l’Oriente senza diventare una potenza asiatica, perché solo in Asia poteva ritrovare nuova linfa per riaffermare la sua natura europea. Qualche decennio dopo, a seguito della rivoluzione bolscevica, tra i molti intellettuali che abbandonarono la Russia, vi erano i cosiddetti “eurasisti”. I suoi seguaci rimproveravano alle potenze occidentali il fatto di non essere state capaci di sconfiggere il bolscevismo nella sanguinosa guerra civile occorsa in Russia tra il 1917 ed il 1921. Scrissero una raccolta di dieci saggi dal titolo “Esodo verso Oriente” pubblicata a Sofia nel 1921. Prevedevano la distruzione dell’Occidente e la nascita di una nuova civiltà con la Russia o Eurasia al suo vertice. Si affermava che la Russia faceva riferimento alla cultura asiatica della steppa, mentre le influenze bizantine ed europee non erano riuscite a penetrare nel popolo russo, scalfendo solo marginalmente parte della popolazione. Erano però posizioni queste, che non trovavano risconti etnografici e denotavano solo un certo risentimento verso l’Occidente. La rivoluzione bolscevica fu un grande evento che sconvolse la Russia ed il mondo intero. Per la prima volta le teorie marxiste presero forma e sostanza e la Russia divenne il primo Stato comunista al mondo.
Il successo bolscevico è sicuramente dovuto a più fattori, ma soprattutto alla bravura di Lenin di portare a sé quel mondo contadino che fino a pochi anni prima costituiva l’asse portante del consenso al regime zarista e alla Chiesa ortodossa. Il mancato ascolto da parte del regime zarista alla richiesta di riforme sociali e ammodernamento dello Stato e il susseguente dramma della I° guerra mondiale con migliaia di morti per inedia, dette il via alla rivoluzione liberale di febbraio con Kerenskij e pochi mesi dopo alla rivoluzione bolscevica dell’Ottobre 1917. Ciò portò la Russia ad essere considerata un modello dai simpatizzanti comunisti oppure un pericolo da evitare dai tanti oppositori.
La conseguente trasformazione della Russia in Unione Sovietica, ha portato con sé trasformazioni radicali a livello sociopolitico, ma non ha scalfito, ma semmai rafforzato l’ipertrofia dei suoi apparati burocratici e statali. Per quanto ci riguarda, la nascita dell’Unione Sovietica ha fatto in modo che il rapporto con l’Europa non fosse più di ammirazione o risentimento, perché la dittatura comunista si poneva nel mondo come la salvatrice dell’umanità, il faro di un modo nuovo di vivere, con l’illusione di creare un uomo nuovo.
San Pietroburgo e Mosca cambiarono il loro aspetto durante i settanta anni di potere comunista. San Pietroburgo perse la centralità di un tempo e nel 1924, con la morte di Lenin, assunse il nome di Leningrado. Molti palazzi aristocratici vennero collettivizzati, divenendo dimore per la povera gente, mentre molte altre abitazioni dei nobili delle province furono date alle fiamme o confiscate dai Soviet locali. Leningrado con il tempo perse la sua centralità e attrattiva, anche perché gran parte dell’aristocrazia e del mondo intellettuale era emigrato in Europa, facilmente raggiungibile dalla città petrina. Chi come la poetessa Achmatova decise di rimanere in Russia, si trovò costretto a subire vessazioni e dover socializzare la sua stessa abitazione con estranei. Nella vecchia San Pietroburgo si percepiva un senso di decadenza e nostalgia per il glorioso passato. Mosca era invece diventato il centro politico bolscevico e assunse un ruolo di guida per l’intera unione Sovietica. Inoltre Mosca fu oggetto dei primi esperimenti costruttivisti che dettero vita a grandi edifici con centinaia di case tutte uguali. I costruttivisti proposero il completo annullamento della sfera privata, appunto costruendo case comuni, dove ogni possesso sarebbe stato condiviso.
La guerra con la Germania nazista iniziata a Giugno del 1941, ebbe l’effetto di compattare nuovamente il popolo russo, arrivato sfibrato dopo le continue purghe staliniane degli anni 30’, con il terrore e la paura che albergavano in vasti strati della popolazione. Leningrado fu messa a ferro e fuoco dai nazisti che poi avanzarono fino a Stalingrado dove un’eroica resistenza del popolo russo costrinse i tedeschi ad una rovinosa e lunga ritirata.
Verso la fine degli anni Quaranta, passeggiando a Leningrado con Nadezda Mandelstam, l’Achmatova disse: “E pensare che i migliori anni della nostra vita sono stati quelli della guerra, mentre tanta gente veniva uccisa, quando si moriva di fame e mio figlio era ai lavori forzati.” Un concetto che ritroviamo nel romanzo di Boris Pasternak “Il dottor Zivago”: “E, quando scoppiò la guerra, i suoi orrori reali, il pericolo reale e la minaccia di una morte reale furono un bene in confronto al dominio disumano dell’astrazione, e portarono un sollievo, ponendo un limite alla magica potenza della lettera morta.” Alla fine della guerra la Russia si trovò al tavolo dei vincitori con Gran Bretagna e Stati Uniti. Fin da subito apparve evidente come le democrazie liberali e l’Unione Sovietica rappresentassero due realtà, due modi di interpretare la società ed i valori che la ispiravano, tra loro incompatibili e inconciliabili. Nei susseguenti anni della guerra fredda, con il duro scontro sottotraccia con gli Stati Uniti d’America, l’Unione Sovietica tentò di portare a sé l’Europa, senza riuscirci. Nonostante l’influenza comunista nel Vecchio Continente, l’Europa si schierò dalla parte degli Usa. Inoltre l’Unione Sovietica dietro l’immagine di potenza mondiale, nascondeva delle fragilità economiche e sociali che solo la forza dell’ideologia comunista riusciva in parte a tenere sottotraccia. Sembrerà paradossale, ma seppur con tematiche e visione del mondo radicalmente opposte, la Russia sovietica appariva più vicina alle ambizioni salvifiche degli slavofili rispetto agli occidentalisti come Herzen. Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, c’è stato un riavvicinamento all’Europa ed un tentativo di abbracciare i valori democratici occidentali. Purtroppo però, secoli di oppressione zarista e oltre settanta anni di dittatura sovietica, hanno fatto in modo che questi tentativi fallissero nel giro di neanche un decennio. Mosca e San Pietroburgo sono ancora oggi le città simbolo della Russia e, seppur in maniera minore, rappresentano due realtà tra loro divergenti. Guardando alla loro accesa rivalità, sembra che il successo dell’una oscuri in certo modo quello dell’altra. Ai miei occhi il progetto di Pietro il Grande pare con il tempo aver perso la sua forza propulsiva: l’europeizzazione del popolo russo si è in parte avuta nelle grandi città, ma i valori democratici non hanno trovato vasta eco nella Russia profonda. Al comune cittadino europeo la Russia appare uno Stato tuttora autoritario in cui fa breccia l’istinto, per dirla come Vittorio Strada, “di essere alla ricerca di una sua esclusiva particolarità, che in realtà è costituita da relitti di sovieticità, nostalgie imperiali e ambizioni di superiorità.”
Letture:
- Orlando Figes – La danza di Nataša. Storia della cultura russa (XVIII – XX secolo) – Einaudi
- Vittorio Strada – EuroRussia – Letteratura e cultura da Pietro il Grande alla rivoluzione – Laterza
- Vittorio Strada – Europe. La Russia come frontiera – Marsilio