Redazione
Federico Mugnai affronta in questa sua analisi storica i rapporti che intercorsero fra il nascente partito fascista e il partito liberale, evidenziando le aspettative, le motivazioni e quelle che poi si rivelarono le illusioni di quegli intellettuali e politici che, per quanto ispirati dal valore della libertà, accettarono l’esperienza fascista.
Si è molto scritto e parlato nel tempo a proposito delle responsabilità della classe politica dell’epoca nell’ascesa al potere del fascismo. Soprattutto si è sottolineato il fatto che buona parte di quella classe dirigente ha tentato invano di inglobare il fascismo, cercando di normalizzarlo e portarlo nell’alveo del fragile sistema democratico sopravvissuto al primo dopoguerra. Sappiamo tutti come sia andata purtroppo a finire, come questo tentativo sia naufragato per vari motivi, tra i quali spiccano tra tutti l’abilità e il fiuto politico di Mussolini e la natura intrinseca del fascismo e dei fascisti, refrattari alle regole del parlamentarismo, sostenitori di un decisionismo autoritario che si incarnava alla perfezione con la volontà del suo Duce. A tal proposito la fragilità dei governi era tale che più che aspirare alla libertà, le masse chiedevano a gran voce di essere governate in modo appunto autoritario. Come ha evidenziato in quegli anni Giuseppe Bottai, “la dittatura di oggi… ne è un passaggio obbligato. La nessuna attitudine che le classi del dopoguerra ebbero a servirsi della forza, senza che, d’altra parte, riuscissero a guadagnarsi il consenso, si ripercuote nella necessità attuale di un uso più rigoroso e continuo della forza.”
E per l’appunto sappiamo anche che uno degli errori fondamentali fu il fatto di tentare di trovare un nuovo equilibrio politico e sociale riferendosi all’epoca prebellica, senza accorgersi che la guerra aveva mutato profondamente i singoli e soprattutto le masse, scavando un solco profondo tra la società pre e post guerra. Le masse con la guerra avevano per l’appunto assunto un ruolo predominante e l’incapacità di nazionalizzarle (per dirla come lo storico George Mosse) e unirle in uno Stato – Nazione con i suoi riti, la sua storia, la sua cultura e le sue tradizioni fu un problema centrale, spesso trascurato dai politici dell’epoca. Anche il Risorgimento e la successiva Unità d’Italia erano stati solo in parte momenti davvero unificanti, vissuti soprattutto nel Mezzogiorno come un’imposizione voluta dai Savoia e dal Nord. Così, con il passare degli anni si era creato appunto un solco profondo tra Nord e Sud e la prima guerra mondiale aveva acuito ancor più questo sfilacciamento interno alla Nazione e contrapposto in maniera accesa neutralisti ed interventisti: fu quindi vissuta come un periodo contraddistinto da lacerazioni profonde più che da unione delle forze in un momento delicato e pieno di tensioni. Le promesse di “rivoluzione sociale” fatte durante la guerra, furono deluse ancora una volta, ancora più messe in evidenza dalla crisi economica dovuta all’ingente debito accumulato durante la guerra. Da qui nacque quella prima ondata di mobilitazione politica e sociale (con occupazione di terre e fabbriche) da parte di quelle masse operaie e contadine escluse fino allora dalla partecipazione attiva del potere. Il sistema di potere dell’età giolittiana con la corruzione dilagante e la vera e propria compravendita di voti (soprattutto al Sud) per mantenere il controllo del potere non venivano più accettate soprattutto da quelle classi medie – basse cui gravò maggiormente lo sforzo bellico con gli oltre 500000 morti e altrettanti feriti. Il suffragio universale che dal 1912 portò le masse lavoratrici al voto, fece il resto. Ora, per controllare il potere, non era più possibile corrompere un pugno di uomini per tenere sotto controllo un’intera area: sarebbero serviti molti più soldi che lo Stato non poteva più permettersi di spendere. Gli scandali dell’era giolittiana vennero a galla e montò il disgusto per la classe politica prefascista, così come crebbe l’idea che le forze antisistema, potessero rappresentare una speranza concreta per l’avvenire dell’Italia, per ristabilire un nuovo ordine in Italia ed in Europa. Fu così che il sistema politico che fino ad allora era sempre riuscito a trovare compromessi con i vari centri di potere lobbistici, dal 1919 in poi si sfaldò, incapace di far fronte prima al sovversivismo socialista e poi all’onda lunga del fascismo. E’ sul piano morale e culturale che venne a maturare un profondo sconvolgimento negli animi di tanti, cosicché appunto la classe politica tradizionale appariva ormai inadatta ad interpretare i bisogni e le necessità dei più. Una forte reazione al positivismo, un’adesione a certo irrazionalismo mistico e attivismo si posero come fondamenti rivoluzionari rispetto al clima dell’epoca prebellica. Si assistette infatti ad una forte ideologizzazione delle masse a una radicalizzazione della lotta sociale e politica alimentando la sfiducia nel parlamentarismo democratico.
Il fascismo nacque in questo clima caotico e dispersivo, come espressione della piccola borghesia, di quei ceti emergenti, che appunto dopo la guerra avevano assunto una rilevanza sociale non più trascurabile e sentivano minacciate le loro proprietà, le loro libertà dall’avanzata del socialismo, le cui politiche erano ritenute insostenibili a livello economico e politico. Eppure il fascismo non può essere liquidato come semplice reazione al comunismo: entrambi i movimenti riscossero successo dopo la guerra, entrambi aspiravano a creare un uomo nuovo ed immaginavano un futuro di riscatto vuoi per il proletariato, vuoi per la Nazione. Su certo progressismo del fascismo si è scritto molto, suscitando spesso aspre polemiche in sede storica e politica. È comunque indubbio che in maniera simile ai regimi comunisti, il fascismo seppe mobilitare le masse, attivarle con l’ambizione rivoluzionaria di farle in qualche modo sentire partecipi della costruzione di un ordine sociale nuovo e migliore rispetto a quello precedente. Senza questo aspetto (per nulla secondario) non riusciremmo a spiegare il consenso, spesso diffuso, di cui godette il fascismo in Italia, specialmente durante la prima metà degli anni Trenta.
Vorrei però ora soffermarmi in maniera più dettagliata su una questione spesso poco dibattuta e che secondo me è importante per capire meglio come il fascismo sia penetrato anche su ambienti e settori che, agli occhi nostri sembrano oggi lontani da quella prospettiva e dalla possibilità di ricercare dei punti di contatto solidi. Penso al rapporto rivelatosi con il tempo inconciliabile tra liberalismo e fascismo. Sicuramente negli anni che precedettero la Marcia su Roma e fino alle cosiddette “leggi fascistissime” che portarono alla vera e propria dittatura fascista, non mancarono le suggestioni di alcuni liberali ad intravvedere nel fascismo un rinnovamento di quel liberalismo che in Italia, specie nell’età giolittiana, era stato soprattutto caratterizzato da intrighi di palazzo e lobbismo. Alcuni liberali auspicavano che il fascismo arrivato al potere avrebbe dismesso il suo carattere violento ed autoritario per rassicurare il popolo e farsi portatore di un nuovo Risorgimento che avrebbe riunito una nazione sfilacciata tra Nord e Sud, tra rossi e neri, nell’incalzare di troppe tensioni accumulate durante e dopo la Prima Guerra mondiale. Le occupazioni di fabbriche, gli scioperi di massa, il richiamo all’Unione Sovietica di Lenin e quindi alla lotta anticapitalista, dettero l’impressione che il fascismo, che al caos rosso si opponeva violentemente, fosse in qualche modo visto come il male minore. Il fascismo trovò appunto consensi un po’ ovunque (tranne nei socialisti), anche perché il suo programma era piuttosto vago ed i suoi propositi principali erano la pacificazione nazionale, la concordia tra le classi ed un rinnovato patriottismo che avrebbe dato risalto alla vittoria nella Prima Guerra mondiale, permettendo ai combattenti e reduci un primato ed un segno di riconoscenza che la vecchia classe politica non era riuscita a dare. A questo patriottismo, che negli anni successivi, sarebbe esploso in un nazionalismo esasperato, anche alcuni liberali aderirono, credendo appunto che l’Unità d’Italia si sarebbe rafforzata e che i venti bolscevichi si sarebbero placati. Gli industriali chiedevano poi a gran voce una pace sociale che le forze di sinistra non volevano e non potevano accordare, pronte a quella rivoluzione socialista che tanta paura e speranza generava negli animi inquieti dell’Occidente. A ciò bisogna aggiungere l’ingente debito pubblico accumulato negli anni della guerra e che gravava ora sul popolo. Il fascismo prometteva prima di tutto “legge e ordine” e questo per una buona fetta di liberali era sufficiente a dargli il sostegno, seppur quasi sempre accompagnato da qualche scetticismo che negli anni del Regime si sarebbe trasformato in rassegnazione. Questi erano tutti motivi validi ed anche importanti per avvicinare i liberali al fascismo: il motivo principale era quello di costituzionalizzare il fascismo, renderlo malleabile agli interessi della classe politica tradizionale. Mussolini sfruttò la Marcia su Roma prima e il delitto Matteotti poi per imporsi come unico leader possibile ed il fascismo non come soggetto politico accolto nel “sistema”, ma come attore principale.
Eppure le suggestioni degli intellettuali di estrazione liberale che appoggiarono il fascismo non mancarono: tra questi possiamo citare Massimo Rocca e Carlo Curcio. Entrambi credettero che il fascismo avrebbe resuscitato la vecchia destra storica, perché appunto pensavano ad un governo autoritario, ma allo stesso tempo che avrebbe lasciato ampie libertà economiche. E su questo punto, anche Mussolini, intimamente socialista, si era per ragioni tattiche ed opportunistiche fatto promotore di idee ambivalenti. Chiedeva da una parte uno Stato forte ed autoritario, dall’altra uno Stato che lasciasse libera iniziativa ai privati. Così in un celebre discorso ad Udine del 20 Settembre del 1922 aveva esclamato: “Avremo uno Stato che farà questo semplice discorso: lo Stato non rappresenta un partito, lo Stato rappresenta la collettività nazionale, comprende tutti, supera tutti, protegge tutti e si mette contro chiunque attenti alla sua imprescrittibile sovranità. Questo è lo Stato che deve uscire dall’Italia di Vittorio Veneto. Uno Stato che non dà localmente ragione al più forte; uno Stato non come quello liberale, che in cinquant’anni non ha saputo attrezzarsi una tipografia per fare un suo giornale quando vi sia lo sciopero generale dei tipografi; uno Stato che è in balia della onnipotenza, della fu onnipotenza socialista…Tutto l’armamentario dello Stato crolla come un vecchio scenario di teatro da operette, quando non ci sia la più intima coscienza di adempiere ad un dovere, anzi ad una missione. Ecco perché noi vogliamo spogliare lo Stato da tutti i suoi attributi economici. Basta con lo Stato ferroviere, con lo Stato postino, con lo Stato assicuratore. Basta con lo Stato esercente a spese di tutti i contribuenti italiani ed aggravante le esauste finanze dello Stato italiano.” Parole forti che se da un lato rassicuravano gli industriali, dall’altro rivelavano come lo Stato fascista sarebbe stato intollerante e liberticida e come quindi il “liberismo” professato dal futuro Duce fosse in realtà fumo negli occhi. Poco più di tre anni più tardi, lo stesso Mussolini avrebbe sentenziato: “Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”. Eravamo nel 1925, all’inizio della vera e propria dittatura, un periodo che fu utile per costruire in maniera solida l’architrave dello Stato fascista. Mussolini, dopo i 2 anni di governo, fiancheggiato da popolari, liberali e nazionalisti, aveva si avallato alcune proposte liberali (come il pareggio di bilancio, il rafforzamento della Lira), ma intanto aveva creato la Milizia ed il Gran Consiglio del fascismo, che di fatto scavalcava il Consiglio dei ministri. Il delitto Matteotti fu l’utile pretesto che portò alla dittatura. E qua il Duce comprese l’utilità di un cambio di marcia: le politiche liberiste non erano più utili al suo progetto: molto meglio pensare ad uno Stato che in qualche modo fosse connesso con tutto il tessuto produttivo del Paese, ma allo stesso tempo non si ponesse il compito di tarpare le ali all’iniziativa privata. È così che prese forma il Corporativismo fascista, la famosa Terza via, equidistante dal capitalismo e allo stesso tempo dal socialismo. Un progetto che sarebbe fallito, ma che nei primi anni accese grande dibattito ed entusiasmo tra tanti suoi sostenitori e promotori come ad esempio Ugo Spirito e Giuseppe Bottai.
Anche il corporativismo fu considerato da molti liberali come una sorta di protezione da parte dello Stato alle attività economiche. Era ritenuto un collante decisivo per superare i momenti di crisi, raggiungere la pace tra le classi e scavalcare quindi la lotta sindacale. Anche questo passaggio fu considerato in un’ottica di armonizzazione economica e pacificazione nazionale. In molti non si erano accorti o non avevano voluto vedere la natura illiberale, collettivista e antidemocratica del fascismo. Per comprendere meglio il tumulto di sensazioni di quel periodo e le ragioni del sostegno di una parte del mondo liberale al fascismo, è bene riportare alcuni stralci di scritti del periodo. Iniziamo da Carlo Curcio, dal suo saggio “L’esperienza liberale del fascismo “: “Che avvenne? I fascisti videro che l’ora era suonata. Tutti i problemi posti dalla guerra restavano insoluti; la Vittoria stessa restava lettera morta nei libri e ne era scomparso il palpito. Un consuntivo immediato era più che efficace per una dichiarazione fallimentare: avviliti di fronte all’estero, una disfatta diplomatica ogni giorno, il debito dello Stato in aumento, le condizioni economiche del Paese in uno stato deplorevole; deplorevole tutti i servizi statali; anarchiche tutte le forme di amministrazione, anarchici gli spiriti, lo Stato inesistente… Che occorreva? Tagliare il male alle radici. Tentare l’ultimo esperimento… La controrivoluzione liberale iniziava, così la sua opera feconda. Era liberalismo che veniva su, come un moto di liberazione, da una organizzazione varia, complessa nei suoi elementi, ove figuravano studenti ed ex ufficiali, piccolo borghesi e grossi borghesi, operai e classi colte, poveri e ricchi, ceti bassi e ceti medi, giovani e vecchi… Mussolini si trovò già, d’allora, ad essere, nonché capo del fascismo, che voleva dare alla Nazione italiana lo Stato italiano, il vero capo della restaurazione liberale, che riprendeva, sulla linea della tradizione, la sua forma, la sua logica, la sua dirittura, pur nell’esperienza nuova che la storia dettava. Esperienza, questa volta si, veramente liberale.”
Carlo Curcio si fa quindi promotore di un liberalismo nazionale antagonista al socialismo e fautore di un cesarismo e di uno Stato forte. Come abbiamo visto, la debolezza dello Stato liberale durante il biennio rosso fu per tanti oppositori al socialismo, uno shock talmente profondo, dal cercarvi in tutti i modi un rimedio. Le forze politiche che si opponevano al socialismo erano unite dall’avversione per l’egualitarismo, desideravano una società gerarchica e con più classi, unite dall’interesse comune della Nazione. L’idea liberale (condivisa all’inizio opportunisticamente dal fascismo) che il merito avrebbe stabilito le gerarchie della società, fu con il tempo soffocata dal fascismo in una gerarchia rigida e schiava delle decisioni prese dall’alto dal suo Duce e da comportamenti servili e adulatori da parte dei gerarchi nei confronti del Capo. Queste rimanevano comunque idee nella testa di pochi. I tanti che aderirono al fascismo, lo fecero più di istinto che per vere e proprie ragioni programmatiche o ideali. Ad un certo punto parve infatti che una buona parte di coloro che avevano inneggiato al socialismo, si fossero improvvisamente accorti che le loro richieste non erano in realtà state esaudite e che i loro partiti di riferimento avevano esaurito la loro spinta propulsiva. Era anche per questo che il fascismo iniziò a veder gonfiate le sue fila. Massimo Rocca, giornalista e politico fascista nei primi anni del Regime, intravide un pericolo nella repentina adesione delle masse al fascismo, a partire soprattutto dal tardo 1920.
Scriveva a tal proposito: “Una specie di demagogia fascista va sorgendo qua e là in Italia, ove le leghe si iscrivono ai fasci nella speranza di ottenere da essi più che dai socialisti o dai popolari. Molti fascisti del resto, e fra i migliori, dubitano oggi del valore puramente estensivo che ebbe per il Fascismo l’adesione di grandi masse, le quali non sempre cambiano, purtroppo, nei trapassi di partito, la loro psicologia: fuoco d’entusiasmo più o meno duraturo, che non darà mai, né al fascismo né alla Nazione, il contenuto etico ideale e ricostruttivo di cui sono ricchi i nuclei non pletorici ma saldi, ove la demagogia non ha ancora conficcato la sua punta.” Nel proseguo del suo articolo Rocca esamina le varie anime del fascismo, dall’ala sindacalista rivoluzionaria, a quella nazionalista ed intransigente, fino a quella piccola – media borghesia che chiedeva a gran voce pace ed ordine. In questa Massimo Rocca ripose le sue speranze: : “Oggi, un movimento restauratore che si proponesse di ridare all’Italia la santità del suo prestigio, agli italiani un senso profondo di disciplina pratica, alla politica estera una ragionata coscienza del valore nazionale, alla politica interna un contenuto di austerità morale…..un movimento che si ribellasse alla mania collettivista che, fra industrie di Stato, controlli burocratici, cooperative sussidiate e consorzio privilegiati, soffocate le libere energie produttive, piegandole a pagare le spese di un vero parassitismo; un movimento che non avesse pregiudizi liberisti né particolari interessi protezionisti, che non identificasse la Nazione con nessuna classe….” I timori di Rocca sulla “massificazione” del partito avranno la meglio sulle sue aspirazioni di politiche liberali da parte fascista. Il suo revisionismo fascista si scontrò con la dura realtà, cosicché nel 1926 venne di fatto estromesso da Deputato, dopo essere stato eletto nel 1924 nelle file fasciste.
Si può ben comprendere come nel corso degli anni, tra fascismo e liberalismo si creò un solco mai più colmabile. Se già nei primi anni del Regime, le “leggi fascistissime” soffocarono i diritti fondamentali dell’individuo, la crisi del 29’ ampliò questa divaricazione tra fascismo e liberalismo: in quegli anni infatti il dirigismo economico (con la creazione di IMI ed IRI) si fece sempre più massiccio, rendendo più pervasiva la presenza dello Stato nell’economia nazionale. Gli anni che seguirono la Guerra d’Europa, quindi le conseguenti sanzioni economiche da parte della Società delle Nazioni, dettero sempre più fiato all’estremismo fascista, portando con sé più chiara la polemica anticapitalista e contro la cosiddetta plutocrazia che si espresse con l’autarchia economica, l’infamia delle leggi razziali e con la scelta disgraziata dell’alleanza con la Germania nazista. Prese poi forma con ancora più drammaticità e tragicità con l’entrata in guerra prima, e vedere esasperare ulteriormente i toni con la nascita della Repubblica sociale nel Settembre 1943, nel momento del crepuscolo del fascismo, con il ritorno alle origini. Lo spostamento a sinistra, con la borghesia considerata come la vera e propria traditrice della rivoluzione fascista, e la socializzazione che tentava di andare incontro alla miseria economica dilagante con la guerra, non ottenne i consensi sperati. Il mondo borghese e liberale che aveva fiancheggiato il fascismo ed era rimasto perplesso, ma comunque silente e pedissequamente complice dei gravi errori ed orrori commessi dall’Italia fascista, ebbe un sussulto il 25 luglio 1943 nel far cadere Mussolini. Gran parte dei liberali che avevano fiancheggiato il fascismo lo avevano appunto fatto per rafforzare e rivitalizzare il sistema che pensavano si sarebbe conservato senza grossi scossoni. Un errore che non poteva permettere una riabilitazione della vecchia classe politica prefascista. La successiva Liberazione del 25 Aprile 1945 da parte degli Alleati e dei partigiani fu un crocevia importante per rinnovare lo Stato italiano sotto vari fronti: dapprima il suffragio universale maschile e femminile del 1946 con il Referendum su Monarchia o Repubblica e poi con la promulgazione della Costituzione del 1948 mise la pietra tombale sia sull’esperienza fascista che sul vecchio Stato liberale giolittiano.
Per quanto indagato in questa mia disamina del rapporto tra fascismo e liberalismo, sento la necessità di concludere quanto detto, riportando due stralci di un intervento di Giuseppe Bottai, forse l’intellettuale fascista che meglio espresse l’incompatibilità fattuale tra liberali e fascisti: “L’esperienza della rivoluzione francese e quella del dominio napoleonico mostrarono come, scaturiscono due diverse, opposte, contraddittorie interpretazioni e pratiche politiche: l’uomo è dinanzi allo Stato come l’unica ed effettiva realtà della vita sociale e allora lo Stato, privo di ogni valore proprio e autonomo, si rende alla mercé dei singoli, progressivamente annullandosi, seguendo l’inesorabile corso della degenerazione liberale nell’anarchia; oppure lo Stato si pone dinanzi alle discorde e incoerente molteplicità degli individui come l’unica realtà sociale, come la fonte unica del diritto e, subordina a sé i cittadini come strumenti propri. Dinanzi a simile fatale oscillazione tra anarchia e dispotismo, determinata dall’ortopedico dei principi democratici nella realtà della vita sociale, insorse, a partire dal Romanticismo, tra il secolo XIX e il secolo XX, in Francia e in Germania prima, in Italia poi, un vasto movimento di reazione critica alla mentalità ai principi della Rivoluzione francese. È in questo movimento che in modo originale, nostro italiano, si innesta la Rivoluzione intellettuale del Fascismo.”
E più avanti analizzando appunto il rapporto tra fascismo e liberalismo, Bottai dichiara: “Mentre nessuno può disconoscere che fu il principio liberale a determinare la nostra Rivoluzione Nazionale, nessuno può, per converso, negare l’insufficienza di esso principio nella pratica di Governo. Orbene, nel liberalismo inteso come il processo medesimo della storia, il fascismo si inserisce come il fatto stesso di essere, di governare, per le forme della sua organizzazione e per lo spirito che ispira la sua azione, spirito di libertà, quale afferma la storia, che non è arbitrio individuale ma volontà superiore, sintesi di libertà e di autorità che per realizzarsi si oppone anche al libito dei singoli. È in nome di questa libertà superiore e universale che agisce il fascismo e da essa trae la sua più profonda giustificazione.” Bottai ha espresso in parole chiare e cristalline il percorso oppressivo di oltre venti anni di Regime. La libertà quindi viene imposta dallo Stato, da un Duce, da una volontà superiore rispetto a qualsiasi singolo individuo. L’individuo stesso viene disprezzato, perché porta con sé l’idea di una società frammentaria e caotica, non ordinata secondo le volontà del Capo. È una concezione della libertà comune a tutti i collettivismi di destra e sinistra, a qualsiasi regime autoritario che ha l’abitudine di esprimere con la forza e la coercizione le proprie direttive, di imporre cioè alle masse le proprie convinzioni e schiacciare qualsiasi iniziativa individuale. Nessuna velleità liberale poteva trovare terreno fertile nella realtà fascista. I pochi liberali che credettero ad un “neoliberalismo” videro le loro aspirazioni trasformate in illusioni: alcuni dovettero emigrare o come tanti altri fecero, salire nel carro del vincitore e dichiararsi opportunisticamente fascisti. Resta il fatto, che a parte poche e nobili eccezioni (Gobetti, Salvemini ed Amendola su tutti), una buona parte dei liberali in Italia si piegò con troppa facilità dinanzi all’emergere del fascismo, considerandolo “un matrimonio” necessario. Un connubio che, come abbiamo visto, non poteva sussistere, proprio per la natura profondamente illiberale e collettivista del fascismo.
Letture:
- A cura di Renzo De Felice – Autobiografia del fascismo – Einaudi
- George Mosse – La nazionalizzazione delle masse – Il Mulino
- Renzo De Felice – Intervista sul fascismo – Laterza
- Gaetano Salvemini – Le origini del fascismo in Italia – Feltrinelli