Redazione
Essere e/o divenire, un dibattito ancora aperto che affonda le radici nel pensiero dell’antica Grecia, ad iniziare da Parmenide ed Eraclito. Carlo Martini analizza e descrive gli sviluppi moderni di questa aporia alla luce degli snodi epistemici forniti dalla scienza. Se ne trae un quadro molto interessante e denso di implicazioni. Ancora una volta arte e scienza si dimostrano entrambe foriere di risposte e conoscenza e la filosofia irrinunciabile mestiere degli uomini.
Questa seconda parte della trattazione del dilemma fra essere e divenire alla luce dell’arte di Piero della Francesca e Claude Monet fa seguito all’articolo precedentemente pubblicato. È consigliato quindi che il lettore si dedichi prima alla lettura di questo al fine di comprendere in modo chiaro quanto scritto sotto.
Partendo proprio da quanto scritto nel primo articolo, è chiaro come la cultura prescientifica ponesse le basi della conoscenza della struttura fondamentale del mondo su un concetto metafisico di Essere. Tuttavia raggiunta la rivoluzione epistemica galileiana del 1632, una volta inaugurato il metodo scientifico, i passi degli intellettuali del tempo non si discostarono molto dal percorso precedentemente tracciato. Lo stesso fisico pisano pare andare assolutamente incontro a questo modo di vedere le cose. Celeberrima la frase pubblicata sul “Dialogo sopra i due massimi sistemi”: “Il libro della Natura è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure geometriche senza i quali mezzi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto”. Non solo, questo tipo di visione sembra ancor più confermato dalla legge di gravitazione universale di Newton, come descritto in modo più dettagliato nel precedente articolo Tra arte e scienza: Armando Pelliccioni e la terza cultura.
Questo quadro concettuale risuona nelle parole di Isaiah Berlin nel libro Against the Current quando ricorda che grandi fondatori della scienza occidentale sottolinearono l’universalità e l’eternità delle leggi naturali. Scrive infatti. “Essi cercarono schemi onnicomprensivi, una struttura unificante, al cui interno si potesse mostrare che ogni cosa esistente è sistematicamente – cioè logicamente o causalmente – interconnessa con ogni altra, vaste strutture in cui non ci fossero spazi lasciati aperti per sviluppi spontanei ed inattesi, in cui tutto ciò che accade fosse, almeno in linea di principio, interamente spiegabile in termini di leggi generali ed immutabili”.
L’apice di questo sforzo concettuale si raggiunse nella prima metà del ‘800 col matematico Sir William Rowan Hamilton che riuscì a formalizzare la Dinamica descrivendone gli eventi secondo il modello dei sistemi integrabili. Simbolo di questo traguardo fu il demone di Laplace, capace di osservare, in un dato istante, la posizione e la velocità di ogni massa dell’Universo, e di dedurne l’evoluzione universale. In questa visione causale delle cose, un concetto risaltava su tutti: le traiettorie sono reversibili, ed i processi possono essere decifrati in avanti ed in dietro, il tempo degli eventi naturali può in linea di principio essere percorso verso il futuro e verso il passato. La natura è dominata dall’immutabilità temporale dell’essere, anche se sembra che tutto sia in divenire. Ogni volta che i fisici intendevano evidenziare la loro descrizione matematica del moto come relazione di equivalenza fra causa ed effetto, essi facevano ricorso ad un esperimento mentale che illustrava una palla perfettamente elastica che rimbalzava sul suolo. Poco importava che il comportamento perfettamente elastico non esistesse in natura, che fosse un’idealizzazione, la differenza fra la realtà immaginata e l’esperimento era considerata trascurabile, e la descrizione matematica che risultava dall’approssimazione sembrava descrivere in modo appropriato il moto dei corpi. Per tornare alla metafora di Piero, descritta nell’articolo che precede questo testo, il dodecaedro era considerata un’approssimazione accettabile rispetto alla sfera ed il mondo poteva essere descritto matematicamente con le proprietà di quest’ultima. Non solo, questa visione aveva una consonanza culturale così perfetta con la visione del pittore biturgense tanto che passati più di tre secoli dalla sua morte, filosofi e teologi potevano appellarsi a tale visione per fare scienza e fisici e matematici potevano decifrare e commentare la saggezza e la potenza divina che operavano nel creato: la Madonna del Parto poteva essere considerata la traduzione iconografica quasi letterale delle conoscenze scientifiche fino agli inizi del XIX secolo.
Tuttavia, proprio quando questa concezione del mondo si apprestava al suo definitivo trionfo, ci furono progressi nel campo della matematica e in quello della fisica che prepararono ad un cambio sostanziale di paradigma.
In modo indipendente i matematici russo Nikolaj Ivanovic Lobacevskij, ungherese János Bolyai e tedesco Carl Fredrich Gauss (un’autentica autorità del suo tempo) misero in discussione i postulati su cui si basava l’unica geometria fino ad allora conosciuta, quella euclidea, inaugurando un nuovo tipo di geometria, quella che poi prese il nome di iperbolica. In una lettera del 1817 Gauss scrive: “sto convincendomi sempre più che la nostra geometria (intendendo quella euclidea) non può essere dimostrata. […] Non si dovrebbe collocare la geometria (sottintendendo sempre euclidea) sullo stesso piano dell’aritmetica, che si regge a priori”. Nel 1823 Bolyai confessò a suo padre: “Ho creato un altro, nuovo universo dal nulla”. Questa novità ebbe una ripercussione enorme sul piano filosofico rispetto ai concetti trattati in questo articolo e soprattutto nel precedente. Il grande matematico francese Jules Henri Poincaré fu portato a concludere che gli assiomi della geometria non fossero né giudizi sintetici a priori né fatti sperimentali, ma delle convenzioni.
La novità che portò con sé l’introduzione delle geometrie non euclidee, fu che queste non avevano nessun riscontro diretto nella natura così come allora era conosciuta. Lo spazio reale non era più descrivibile in linea di principio grazie ad un’unica infallibile geometria. Venendo meno il collegamento diretto tra spazio fisico reale e geometria euclidea emerse una evidenza: la geometria può scaturire dalla fantasia e dalla creatività della mente umana e non c’è più la certezza che contenga in sé la garanzia della verità, non è più scontato che questo sia lo strumento perfetto per indagare la Natura senza compiere errori di giudizio. L’introduzione nel dibattito scientifico delle geometrie non euclidee rompe la soluzione di continuità che faceva scaturire la fisica, per mezzo della geometria e della matematica, dai concetti matematici, così come è stato evidenziato nel precedente articolo. È il primo colpo concettuale all’idea di Essere.
Questa crisi portò con sé una serie di ulteriori domande che minarono alla radice il quadro filosofico che aveva condotto alla convinzione che l’Essere fosse la stella polare del sapere umano: “se la mente può concepire e quindi inventare una geometria non corrispondente al mondo sensibile, la matematica quale natura ha? È un’invenzione della mente anch’essa? E se fosse così, come può essere identificata con il “pensiero di Dio” e giustificare la convinzione che “Dio geometrizza sempre”?”.
Tenendo da una parte per un momento la crisi portata dalle novità matematiche appena descritte al concetto di Essere, anche lo studio della fisica fu foriera di nuove e sconvolgenti consapevolezze.
Sempre Poincaré, questa volta insieme ad Heinrich Bruns dimostrò che il moto della luna, che è influenzato contemporaneamente dalla Terra e dal Sole, era un sistema impossibile da integrare. Fu una sorpresa, una sorpresa che annunciava la fine della fisica dei movimenti semplici, la fine della convinzione che il mondo della dinamica fosse omogeneo, un duro colpo alla fisica dell’essere. Si apriva un’ulteriore crepa nel solido edificio del concetto filosofico di Essere.
Non solo, nel 1811 il barone Jean-Joseph Fourier, vinse il premio dell’Académie per la sua trattazione teorica sulla propagazione del calore nei solidi. Con tale studio venne portata alla conoscenza scientifica una teoria fisica, caratterizzata dello stesso rigore matematico delle leggi del moto ma che non aveva nulla a che vedere con il mondo descritto da Newton: la Dinamica dei corpi non era più la teoria in grado di spiegare ogni aspetto della natura. All’inizio del XIX secolo dunque, si scoprono nei laboratori di fisica di tutto il mondo nuovi effetti legati al moto delle particelle. Nel 1847 James Prescott Joule lega i moti meccanici delle particelle di un sistema ad una grandezza fisica che si converte qualitativamente ma si conserva quantitativamente, tale grandezza successivamente sarà definita “energia”.
L’identificazione del principio di “conservazione dell’energia” permetterà di unificare i fenomeni della natura, siano essi fisici, chimici, biologici ed avrà effetti dirompenti sul nuovo sapere. Infatti fisici ed ingegneri sapevano bene che le macchine industriali motorizzate avevano un rendimento inferiore a quello teorico ideale. Ma erano altresì convinti che solo la macchina ideale potesse essere oggetto di scienza. Tuttavia il principio di conservazione dell’energia permetteva di descrivere i processi reali, all’interno dei quali erano presenti anche le perdite, e non quelli ideali. A cavallo della metà del XIX secolo le conoscenze erano ad un livello tale da permettere di rispondere alla domanda: “Qual è la natura delle perturbazioni irreversibili che diminuiscono il rendimento?”.
Fu così che nel 1865 Rudolf Clausius compì quella che divenne una rivoluzione di portata gigantesca: l’introduzione del concetto di Entropia. Grazie a questa grandezza Clausius pose l’accento sul fatto che durante un processo di trasformazione chimico-fisica, si può conservare l’energia pur senza che il processo rimanga reversibile. Fece una distinzione fra scambi di energia utili e scambi che portano alla dissipazione, caso in cui l’energia non può più essere riportata alla sorgente iniziale con un’inversione del funzionamento del sistema. Era appena stato formulato il Secondo Principio della Termodinamica.
Dopo l’introduzione di questa legge, la fisica non fu più la stessa di prima. I processi avevano una loro “freccia del tempo”, erano irreversibili, il futuro non era più determinato, esso non era più necessariamente implicato dal presente. La natura idealizzata non rappresentava più un modello di riferimento adeguato. La scienza, dopo il 1865 restituì un volto della natura liberato da una concezione che aveva la pretesa di negare nei suoi principi la novità e la diversità in nome di una legge universale immutabile. La fisica si aprì all’imprevedibilità; all’inaspettato non fu più attribuito il significato di una conoscenza imperfetta. In un attimo si comprese, per tornare alla metafora pierfrancescana, che il dodecaedro non era più approssimabile alla sfera. Con la scoperta della reversibilità dei processi la fisica dell’essere stava cedendo il passo alla fisica del divenire.
A questo punto risulta utile alla nostra discussione collocare temporalmente alcuni eventi storici avvenuti in quel periodo, che probabilmente non possono essere inequivocabilmente collegati, ma che è bene tenere presenti sapendo che le conoscenze scientifiche influenzano tutta la cultura e che le novità in campo umanistico risentono di un clima culturale più generale. È a tale proposito a mio avviso interessante considerare che l’exposition al Salon des refusés è del 1863, che “l’impression du soleil levant” di Monet, opera che ha dato il nome al movimento impressionista, è del 1872 e che la celeberrima mostra nello studio del fotografo Nadar, che portò alla ribalta gli impressionisti, è del 1874.
È del tutto chiaro che gli stimoli che portarono artisti come Paul Cézanne, Claude Monet, Camille Pissarro, Auguste Renoir e Alfred Sisley a concepire un nuovo modo di fare arte derivano anche da ben altre sollecitazioni, quali, per citarne una su tutte, l’avvento della fotografia, tuttavia quanto illustrato mi pare in assoluta coerenza con la loro sensibilità e mi sento così di ipotizzarne una risonanza di fondo che abbia contribuito alla formazione delle novità filosofiche contenute in questa corrente artistica. Con l’introduzione del concetto di irreversibilità a buon diritto si può pensare ad un paesaggio come il susseguirsi distinto di momenti separati. Non è più assurdo pensare un pittore con più tele davanti ad un tramonto, ad una piazza, ad una marina, intento a fermare il paesaggio che cambia nell’arco di pochi istanti. Risulta in sintonia con la visione scientifica dell’epoca la frase di Claud Monet da cui è partita l’analisi del precedente articolo “l’acqua, essendo un soggetto così mobile e in continuo mutamento, è un vero problema, perché ogni momento che passa la fa diventare qualcosa di nuovo e inatteso”.
LEtture:
- Ilya Prigogine, Isabelle Stengers – La nuova alleanza – Metamorfosi della scienza – Einaudi 1999
- Mario Livio – Dio è un matematico – La scoperta delle formule nascoste dell’universo – BUR 2009
- Mario Livio – La Sezione Aurea – Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila anni – BUR 2020
- Giulio Tononi – Phi. Un viaggio dal cervello all’anima – Codice Editore
Utile questo accostamento fra le scoperte in campo scientifico e la nascita dell’impressionismo: penso che comunque ancora oggi i fisici siamo alla ricerca di una “teoria del tutto”, di un’ “equazione” che nelle varie applicazioni possa spiegare tutti le leggi dell’universo.
Grazie Franco. L’osservazione sulla “teoria del tutto” è molto giusta, tanto che sarà affrontata nel terzo ed ultimo articolo che verrà pubbalicato la prossima settimana. Grazie dell’attenzione.