Redazione
Essere e/o divenire, un dibattito ancora aperto che affonda le radici nel pensiero dell’antica Grecia, ad iniziare da Parmenide ed Eraclito. Carlo Martini analizza e descrive gli sviluppi moderni di questa aporia alla luce degli snodi epistemici forniti dalla scienza. Se ne trae un quadro molto interessante e denso di implicazioni. Ancora una volta arte e scienza si dimostrano entrambe foriere di risposte e conoscenza e la filosofia irrinunciabile mestiere degli uomini.
Questa è la terza parte di una serie di articoli sul dibattito millenario fra essere e divenire, letto alla luce dell’arte di Piero della Francesca e di Claude Monet. Per comprendere a pieno quanto segue si consiglia di leggere in ordine gli altri due scritti:
- https://www.iltalamo.org/essere-e-divenire-piero-della-francesca-e-monet/
- https://www.iltalamo.org/essere-e-divenire-piero-della-francesca-e-monet-2-la-rivincita-del-divenire/
Abbiamo visto che nell’antichità il concetto di essere ha prevalso nel dibattito culturale filosofico, teologico ed artistico tanto da essere adottato come paradigma dominante nella lettura del mondo. L’idea che l’innumerevole pletora di fenomeni della natura potesse essere ricondotta a semplici leggi immutabili che avessero il loro fondamento ontologico nei concetti matematici, intesi come enti appartenenti ad una realtà metafisica, era sposata da quasi tutti i pensatori, gli intellettuali e gli artisti. In epoca cristiana tali concetti furono identificati con il pensiero di Dio che fu concepito come geometra divino, il quale impresse all’inizio dei tempi tali leggi nella creazione. Un sublime esempio di questa concezione sono le terzine con cui Dante Alighieri parla della sua visione di Dio: “Nel suo profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna”: tutti i fenomeni della creazione sono riconducibili al suo Creatore.
Abbiamo anche sottolineato nel precedente articolo come questa visione resistette anche dopo l’avvento della rivoluzione scientifica, addirittura fino alla fine del XVIII secolo, e come all’inizio del XIX l’introduzione delle geometrie non euclidee abbia filosoficamente minato la plausibilità dell’essere come base del mondo fisico ponendo dubbi sulla relazione diretta fra geometria e fisica. Ovviamente il dibattito sull’argomento ebbe degli sviluppi che riguardarono anche la natura della matematica.
Nel 1844 il matematico Hermann Günther Grassman scrisse la “Teoria dell’estensione lineare: un nuovo ramo della matematica” dove affermò che: “la geometria non può in alcun modo essere considerata […] una branca della matematica; […] deve esserci una branca della matematica che produce in modo puramente astratto leggi simili a quelle della geometria”.
Negli anni ’60 dell’Ottocento altri matematici condussero i loro studi basandosi su una matematica svincolata dal concetto di spazio, fino a che Georg Cantor affermò: “la matematica nel suo sviluppo è completamente libera ed è vincolata soltanto all’evidente condizione che i suoi concetti non siano contraddittori tra loro”.
Il fatto che l’essenza della matematica risiedesse interamente nella sua libertà convinse la maggior parte dei matematici di fine Ottocento trasformando lo scopo ultimo di questa disciplina dalla ricerca delle verità proprie della realtà fisica, alla costruzione di strutture astratte, all’individuazione di sistemi assiomatici e alla valutazione delle conseguenze logiche di tali sistemi.
Questa nuova prospettiva indusse i matematici a conclusioni diametralmente opposte sulla natura della matematica stessa. Da una parte si schierarono quelli che la concepirono come nient’altro che un elaborato gioco astratto creato dalla mente umana sulla base di regole arbitrarie; la conseguenza diretta di questo tipo di schieramento era ovviamente che i concetti matematici non erano reali e la visione dualista del mondo era un errore. Dall’altra parte si schierarono invece quelli che erano convinti che l’introduzione di strutture astratte confermavano la loro appartenenza ad un mondo di verità fuori dalla realtà sensibile, la cui esistenza era altrettanto reale quanto quella del mondo fisico. I primi furono chiamati formalisti, i secondi, ovviamente, neoplatonici.
Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, dunque, il dibattito era infuocato e presero il centro della scena tre giganti dell’analisi del pensiero umano, Ludwig Gottlob Frege, Bertrand Russell e Alfred North Whitehead. Questi concentrarono i loro sforzi intellettuali nel tentativo di dimostrare che la matematica fosse riducibile alla logica, ossia che potesse rappresentare un sistema di concetti formalmente veri in quanto perfettamente coerenti. Frege sostenne questa tesi nella sua opera “Principi dell’aritmetica”, Russell, in collaborazione con Whitehead, tentò di corroborarla scrivendo i “Principia Mathematica”. Per evitare di entrare in contraddizione, cosa che avrebbe fatto cadere tutto l’impianto teorico messo in piedi, Russell e Whitehead introdussero trovate concettuali come l’“assioma di riducibilità”, che in prima battuta sembrò rendere coerente la loro impresa.
I “Principia” furono salutati dai platonisti come una plausibile vittoria dal momento che sembravano conferire una qualche certezza oggettiva alla matematica. Tuttavia il clima di festa non durò a lungo. Dopo la morte di Frege, Kurt Gödel rese pubblici nel 1930 i suoi teoremi di incompletezza che dimostrarono formalmente l’impossibilità di ridurre la matematica alla sola logica e di dimostrarne così la capacità di produrre verità incontrovertibili.
Iniziato da tre decadi il XX secolo, la visione filosofica che il mondo si poggiasse sull’essere immutabile, sempre vero ed eterno, l’idea che il divenire fosse riconducibile all’uno, era minata da più parti. In particolare furono messi in discussione praticamente tutti i passaggi della catena che, partendo dai concetti matematici creduti reali ed esistenti in un mondo separato, passando per la logica, la matematica e la geometria conducevano alla fisica. Come abbiamo visto, con l’introduzione delle geometrie non euclidee si ruppe il legame diretto fra fisica e geometria, l’introduzione del principio di libertà in matematica rese inconsistente il legame stretto fra matematica e geometria, e con la pubblicazione dei teoremi di incompletezza si allentò lo stretto rapporto fra logica e matematica. Non solo, con l’enunciazione del secondo principio della termodinamica fu smentita anche la credenza che il mondo fosse intellegibile attraverso un’unica legge universale e che il tempo non avesse una direzione.
Se a questo punto della storia della conoscenza, le cose per i sostenitori dell’essere andavano male, con lo studio del mondo subatomico e con l’avvento della meccanica quantistica, andarono ancora peggio.
Nel 1927 Werner Karl Heisenberg individuò il principio di indeterminazione che combinato alla funzione d’onda formulata da Erwin Schrödinger l’anno prima, portò alla convinzione che a livello microscopico si potesse parlare dei fenomeni solo in termine probabilistici, e che questo non fosse riconducibile all’ignoranza umana o all’inefficacia degli strumenti di misura, ma fosse una caratteristica intrinseca della natura. In una parola crollò definitivamente la visione deterministica e l’idea che il futuro fosse stabilito dal passato. Questa discussione, che cambiò la visione della realtà fisica per sempre, portò nel 1942 Heisenberg a questa conclusione: “Nell’ambito della realtà le cui condizioni sono formulate dalla teoria quantistica, le leggi naturali non conducono a una completa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo; l’accadere […] è piuttosto rimesso al gioco del caso”.
Con tali parole il dibattito fra essere e divenire sembra arrivare al capolinea: lo studio approfondito del mondo reale ha perso via via traccia dell’essere per dare sempre più spazio al continuo ed irreversibile divenire, il modo di approcciare al mondo di Claude Monet sembra più aderente alla realtà. Non solo, l’analisi degli strumenti utili ad indagare i fenomeni naturali sembra ineludibilmente portare alla conclusione che i concetti matematici sono invenzioni, prodotti della mente. La matematica è solo un sistema formale costituito da teoremi e formule; un sistema, peraltro incompleto, che si è però sempre dimostrato efficace per indagare la Natura. La frase di Parmenide “è la stessa cosa pensare ed essere” presentata nel primo articolo di questa trattazione, che è alla base della visione ontologica della realtà, si è progressivamente svuotata di significato, e forse oggi può essere letta come “l’essere è un prodotto del pensiero, ovvero della mente umana”.
Date queste conclusioni nasce tuttavia una domanda che insinua ancora un dubbio: “se ciò è vero perché mai la matematica ha un valore predittivo nei confronti della realtà fisica?” Sistemi matematici e formule anticipano di anni, a volte decenni ciò che l’esperimento conferma. Una possibile risposta è che, data la ricchezza di possibilità con cui la Natura si esprime, non c’è nulla di sconvolgente se concetti inventati dalla mente umana trovino un futuro riscontro nella Natura stessa. Se questa risposta non dovesse convincere gli scettici ce n’è a disposizione un’altra possibile: la selezione naturale ha portato alla formazione della mente umana in modo che l’uomo si adattasse e si muovesse nel miglior modo possibile nel mondo in cui vive. Le strutture neuronali che hanno permesso l’invenzione dei concetti matematici e la costruzione della logica per creare i formalismi matematici, si sono formate a partire dalla stessa logica adattiva. Ne consegue che se la logica umana ci è stata imposta dal mondo fisico allora è coerente con esso. Così l’idea che la matematica esista indipendentemente dalla mente umana è una semplice suggestione.
Questo dibattito filosofico sembrerebbe davvero concluso, tuttavia c’è da tenere in considerazione alcuni ultimi particolari. All’inizio del Novecento Einstein propose un modello di spazio-tempo, che poi si dimostrò sperimentalmente corretto, per descrivere il quale si servì di un modello geometrico quadridimensionale e curvo. Per fornire la descrizione formale di tale modello utilizzò la geometria non euclidea di Riemann. Questo significa che le geometrie non euclidee hanno una corrispondenza diretta con il mondo reale, anzi sono alla base delle strutture più importanti della realtà stessa, ovvero lo spazio ed il tempo. Quindi non è vero ciò che si credeva all’inizio del XIX secolo, ossia che la geometria non poteva rappresentare il metodo più adeguato ad indagare la realtà fisica, data l’invenzione delle geometrie non euclidee. Einstein stesso lo riconobbe: “Possiamo rappresentare la geometria come la più antica branca della fisica. […] Senza di essa non sarei stato in grado di formulare la teoria della relatività”. Non solo, il tentativo di raggiungere la formulazione della teoria del tutto, la teoria che ricondurrebbe definitivamente il molteplice all’uno, non può ad oggi essere considerato irraggiungibile. L’idea di ampliare il modello standard delle particelle attraverso l’introduzione del concetto di supersimmetria rappresenta una delle più grandi ambizioni della fisica e porterebbe alla possibilità di formulare una teoria unificante. I ricercatori che da anni lavorano a questo modello condividono il metodo “metafisico” che fu di Kepler (vedi primo articolo): la convinzione che debbano esistere nuove particelle elementari si poggia sulla credenza in un mondo strutturato sulla regola geometrica della simmetria, credenza che dovrà poi essere confermata dagli esperimenti. Così l’affascinante teoria delle stringhe o corde nasce da una visione anch’essa geometrica del mondo, dal momento che le caratteristiche fondamentali della materia emergerebbero dalle proprietà geometriche del cerchio. Dalla vibrazione di questi cerchi scaturirebbe la realtà in cui viviamo. Esiste una certa consonanza fra questa raffinatissima idea, corroborata da una solida formulazione matematica, e la musica delle sfere di platonica memoria. Ad oggi queste possibilità, che renderebbero ancora plausibile un mondo governato dall’essere, sono parte del dibattito scientifico, anche se non godono di una verifica sperimentale e allo stato attuale delle conoscenze, e forse per sempre, sono da considerarsi ipotesi.
Sta di fatto che a tutt’oggi ci sono scienziati che non rinunciano alla convinzione di un mondo immutabile. Con una acuta osservazione, nel loro libro “L’esperienza matematica”, Philip Davis e Reuben Hersh dichiarano: “Quando [un ricercatore] fa matematica è convinto di avere a che fare con una realtà oggettiva di cui sta cercando di determinare le proprietà. Ma poi, quando viene sfidato a fare un resoconto filosofico di questa realtà, trova più facile fingere che dopotutto non ci crede”. Iconiche le parole scritte da Albert Einstein in una lettera alla sorella dell’amico Michele Besso, dopo la morte di questo. “Per noi, fisici convinti, la distinzione fra passato, presente e futuro non è altro che un’illusione, anche se tenace”. Commenta Ilya Prigogine: “lo sforzo di Einstein per capire le leggi basilari della fisica fu indirizzato ad identificare l’intellegibile con l’immutabile. Il sole dell’intelligibile, per usare la bella espressione di Platone, illumina soltanto l’eterno mondo delle idee, non l’effimero mondo delle apparenze”.
Perché questa resistenza, che è propria anche di eminenti scienziati come Roger Penrose (si legga l’articolo “disputa sulla realtà (2)”) e Max Tegmark?
Utili per ipotizzare una risposta potrebbero rivelarsi le parole di Daniel, un paziente dello psicologo Baron Choen estremamente predisposto per il riconoscimento di schemi: “Memorizzare una sequenza come il pi greco è confortante e rassicurante, perché il pi greco è sempre lo stesso: è prevedibile al cento per cento. È l’esatto rapporto tra la circonferenza di un cerchio e il suo diametro. Non è bello? […] a me i numeri danno pace e piacere perché si incastrano sempre nello stesso schema affidabile”. Ricorda Baron Choen di avergli chiesto: “Che significano i numeri per te?”. Ha alzato lo sguardo e ha risposto: “Da bambino ero stressato dalle persone, perché non c’è uno schema nel loro comportamento: non fanno mai la stessa cosa due volte. Così ho fatto amicizia con i numeri invece di fare amicizia con i miei compagni di classe”. Degne di sottolineatura appaiono le espressioni “confortante e rassicurante“, “prevedibile al cento per cento“, “bello“, “affidabile“, “pace e piacere“. Queste affermazioni sembrano candidamente e lucidamente ammettere che l’uomo ha bisogno di affidabilità e prevedibilità e qualora l’esplorazione del mondo porti all’individuazione di invarianti queste portino pace e piacere.
Ma forse la questione è ancora più profonda e legata all’ingegneria neuronale dei nostri cervelli. Nel libro da cui sono state tratte queste frasi, Simon Baron Choen, esperto mondiale di autismo, ipotizza che 70000-100000 anni fa l’uomo abbia subito una rivoluzione cognitiva acquisendo due meccanismi cerebrali eccezionali: il meccanismo di sistematizzazione ed il circuito dell’empatia. Ed in particolare propone che il meccanismo di sistematizzazione, abbia portato all’invenzione di nuovi strumenti e tecniche in una stupefacente gamma di attività: nella musica, nella realizzazione di abiti e nell’arte, nell’architettura e nella gestione dell’ambiente; nella matematica, nella scienza e nell’ingegneria; e persino nel diritto, nella filosofia e nell’etica, attraverso l’applicazione di sistemi di regole e logica “se–e–allora”. Osserva tuttavia che coloro che sono maggiormente predisposti all’utilizzo di questo meccanismo, hanno, in alcuni casi, minori possibilità di sviluppare il circuito dell’empatia. Così sono incredibilmente capaci di individuare schemi, ma si trovano in difficoltà nel decifrare il comportamento delle persone. Le persone, dice Daniel “non fanno mai la stessa cosa due volte”. Sappiamo che persone come Thomas Edison e Bill Gates, sono sistematizzatori eccezionali, ma hanno avuto alcuni problemi nel condurre i propri rapporti sociali, ed è probabile che Isaac Newton, Albert Einstein, Max Planck e Paul Dirac avessero disturbi dello spettro autistico accompagnati da documentati problemi nelle relazioni interpersonali. Forse nella predisposizione alla sistematizzazione ed in una certa difficoltà nel circuito dell’empatia dovremmo cercare il seme della suggestione che il mondo sia riconducibile a leggi immutabili e che, come dice Poussin nel libro di Giulio Tononi “l’informazione è in ciò che rimane costante”?
Mi pare di poter dire che la questione non possa essere dichiarata definitivamente chiusa. La fisica come ci ha dimostrato la relatività rispetto alla dinamica Newtoniana porta continue seppur lente ridefinizioni che si stratificano in modo da disegnare quadri sempre più precisi e al tempo stesso compositi. Chissà quale sarà il volto della Natura conosciuto fra qualche secolo! E chissà cosa potremmo concludere di diverso rispetto ad ora sullo specifico dibattito tra Essere e divenire. Mi sembra tuttavia importante sottolineare che le neuroscienze ci suggeriscono di tenere ben in considerazione la particolare ingegneria neuronale di ogni singolo cervello e che la soggettività in questo caso possa far propendere o preferire una o l’altra visione filosofica. Una riflessione attenta non può neanche trascurare l’importanza della componente estetica nella scelta individuale rispetto alle posizioni di campo rispetto ai dilemmi scientifici e filosofici. Nei problemi scientifici più dibattuti, in cui la soluzione non è evidente, emerge una certa aspettativa dei ricercatori rispetto al comportamento della Natura, un recondito desiderio che questa corrisponda al proprio modo di essere. Prova di questo è la celebre definizione di Einstein dei fenomeni alla base dell’Entaglement come “inquietanti azioni a distanza”; se li definisce “inquietanti” è perché, qualora fossero provate, farebbero crollare tutta la sua idea di Universo, anzi addirittura la sua idea di fisica. Questa sorta di nascosta aspirazione di corrispondenza è nemica dell’oggettività scientifica e pericolosamente fuorviante per qualsiasi scienziato, ma ciononostante molto umana.
Confesso di preferire istintivamente e culturalmente un mondo in cui l’ordine, per quanto nascosto, governi in modo armonico i fenomeni; la presenza di un caso che rende la realtà aleatoria e priva di un senso preciso, mi pone in un certo disagio. Probabilmente questo sentimento, al dì là di ogni motivo scientifico, mi mette in risonanza con quel genio della mia terra che è Piero della Francesca e mi fa preferire un mondo governato dall’Essere più che dall’ineluttabile divenire.
Tuttavia resto in attesa che la scienza ci fornisca sempre più elementi per sciogliere questo millenario dilemma e che la filosofia e ogni forma di arte ci suggeriscano strade nuove per pensare alle possibili soluzioni.
LEtture:
- Ilya Prigogine, Isabelle Stengers – La nuova alleanza – Metamorfosi della scienza – Einaudi 1999
- Simon Baron Cohen – I geni della creatività – Raffaello Cortina Editore
- Mario Livio – Dio è un matematico – La scoperta delle formule nascoste dell’universo – BUR 2009
- Mario Livio – La Sezione Aurea – Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila anni – BUR 2020
RIFERIMENTI UTILI:
- Il Principio di Indeterminazione – CURIUSS:
http://www.youtube.com/watch?v=7wwd9F_KP3I&t=1721s