redazione
L’intelligenza artificiale è una realtà in enorme espansione. Incombe sul nostro futuro promettendo straordinari benefici e rappresentando contemporaneamente una fonte di dubbi etici, sociali, filosofici ed addirittura esistenziali per la specie umana. E’ e sarà sempre più presente nella nostra vita. Appare dunque doveroso per ogni persona che si dica accorta e responsabile cominciare a conoscerla per trarne esiti personali non approssimativi. Cecilia Marchi, grazie anche al suo percorso di studi e alla sua professione, ci aiuta ad entrare in questo campo affascinante e delicato, iniziando a fare chiarezza sullo stato dell’arte.
Mi è capitato di accettare un invito a casa di amici, per provare alcuni giochi da tavolo che non conoscevo e di cui invece loro sono molto appassionati. Uno dei giochi che abbiamo fatto – davvero un’idea creativa – si basa sull’avere a disposizione un assistente vocale. Durante ciascun turno, dopo che tutti i giocatori hanno provato ad indovinare, si chiede all’assistente la temperatura corrente di una data città nel mondo.
Indovinare non è un compito banale per l’essere umano: si deve tenere conto dell’emisfero, della stagione, del fuso orario, dell’altitudine, di qualunque altro fattore che possa influenzare la temperatura.
Il compito più difficile per l’assistente vocale, invece, è proprio capire la domanda. “Che tempo fa a Mosca?”. Capire correttamente la sequenza dei suoni pronunciati, partendo da una lunga serie di numeri. Trascrivere nella lingua utilizzata, tenendo conto di quanto è probabile che la sequenza di parole che ne viene fuori sia sensata. Capire che si tratta di una domanda. Evincere dal contesto che non ci si riferisce all’insetto, ma alla città. Dedurre che, in mancanza di indicazioni più specifiche, la richiesta riguarda il giorno di oggi, oltre a sapere già che la parola “tempo”, in questa particolare espressione, ha poco a che fare con quello delle lancette dell’orologio, e più con questioni meteorologiche.
A questo punto mi tornano in mente le pagine piene di matrici, derivate e integrali, schemi misteriosi, teoremi, assunzioni, viste all’università o lette poi per lavoro, su cui si basano tutte le risposte che l’assistente vocale deve darsi per capire correttamente la domanda, senza neanche contemplare la ricerca della risposta.
Quello che voglio dire è che, sebbene la domanda sia breve e apparentemente semplice, nascosta sotto il tappeto c’è una miriade di piccoli ingranaggi, delicatissimi e indispensabili. Questa serie di ingranaggi fa parte del vasto mondo della cosiddetta Intelligenza Artificiale. Ho visto spesso nei manuali o nei saggi divulgativi distinguere tra IA forte e IA debole. La prima si riferisce a una Intelligenza Artificiale che ragiona e agisce in modo indistinguibile da quello umano in ogni campo, e si tratta di una nozione teorica, ideale, qualcosa a cui voler o non voler tendere. Sono IA deboli invece tutte quelle Intelligenze Artificiali che, grazie ad un significativo intervento umano, ottengono risultati notevoli in compiti molto specifici: il riconoscimento dell’impronta o del volto per lo sblocco del telefono, l’assistente vocale, la guida automatica, un computer in grado di giocare a scacchi, la playlist personalizzata, la raccomandazione del prossimo video…
Insomma le IA che conosciamo e che utilizziamo sono tutte IA deboli e sanno svolgere solo i compiti per cui sono state addestrate in modo estremamente specifico. Nessun assistente vocale saprebbe fare anche una partita a scacchi, e nemmeno portare avanti una vera e propria conversazione senza essere interpellato. Anzi, provando a portare avanti una conversazione con un assistente vocale, ci si rende subito conto che non si tratta decisamente di un essere intelligente nel senso umano del termine. Ha difficoltà a capire una battuta, un’espressione fatta, una metafora, persino ad effettuare un compito che linguisticamente si chiama risoluzione dell’anafora e che concretamente corrisponde al capire a quale delle entità nominate precedentemente si riferisca un pronome (“Chi è il presidente degli Stati Uniti?”, “Chi è sua moglie?”, fino all’anno scorso gli assistenti vocali in lingua italiana non capivano a chi si riferisse la seconda domanda).
Sono tutti compiti che un essere umano svolge senza accorgersene, basandosi sul proprio interminaminabile bagaglio di vita, sul contesto della conversazione, sulle azioni e reazioni dell’interlocutore. Dettagli che ad una IA andrebbero insegnati uno per uno e mostrati in modo estremamente specifico per migliaia e migliaia di volte prima di ottenere risultati soddisfacenti che possano funzionare in quell’esatto contesto. Come dimenticare le ore passate a preparare quantità esorbitanti di dati da utilizzare per insegnare a una piccola IA a decifrare una serie di caratteri scritti a mano rigorosamente in stampatello.
Spero di avere portato degli esempi sufficienti a convincere chiunque non sia familiare con le IA che non si tratta di esseri intelligenti nel senso umano, né tantomeno pensanti, ben lontani dall’avere una loro volontà e dal dominare o sovvertire il genere umano. Mi è capitato di leggere saggi che indagano dal punto di vista filosofico questo genere di possibilità, analizzandone minuziosamente cause e conseguenze. Scenari che a me, che ho visto delle IA incapaci di coniugare correttamente il verbo essere nella lingua italiana, fanno sorridere. Personalmente, penso che inizierò a preoccuparmi di questo genere di minacce quando ci saranno delle IA che iniziano a capire il sarcasmo.
Sicuramente dopo aver lavorato a lungo e aver studiato e ragionato per addestrare una piccola IA, è emozionante vederla funzionare in modo soddisfacente, quasi come quando si prova tenerezza per i primi passi, i primi disegni, le prime parole di un bambino. Non si può dire che parliamo di un atleta, di un artista, di uno scrittore, ma è comunque una piccola emozione. Emozione che deriva anche dalla consapevolezza di quello che c’è sotto a una IA, oltre al lavoro della persona o delle persone che la addestrano in pratica.
Quello che si nasconde dietro le quinte non è magia nera, ma moltissima matematica. Per istruire, o, più tecnicamente, addestrarle, si parte da una miriade di dati scelti, ripuliti e preparati appositamente. Si seleziona poi un modello che si adatti bene all’obiettivo che si vuole raggiungere e ai dati che si hanno a disposizione. Infine viene addestrato il modello, processo che comprende operazioni matematiche piuttosto complicate e differenti a seconda della tipologia di modello che si sceglie. Attualmente si utilizzano molto dei modelli che appartengono alla categoria delle reti neurali, di cui si sente parlare spesso. Ne esiste una varietà innumerevole, non mi ci addentrerò, ma il principio è sempre lo stesso: analizzare il maggior numero di dati possibile per apprendere in modo implicito le regole che occorrono per risolvere il problema.
Per portare un esempio semplice ma realistico, se voglio insegnare alla mia IA, ovvero al mio modello, a distinguere tra cani e gatti, gli mostrerò moltissime immagini di gatti spiegando che sono dei gatti, moltissime di cani, spiegando che sono cani. E mi aspetto che, mostrando un’immagine mai vista di un gatto, il modello sappia quali sono i dettagli che rendono più probablie l’opzione per cui quello che vedono è effettivamente un gatto. E’ importante notare che, se mostrerò al mio modello un coniglio, non saprà darmi risposte sensate e non saprà nemmeno dirmi che quello è un animale che non ha mai visto. Proverà comunque a stabilire se è più probabile che si tratti di un cane o di un gatto.
Naturalmente si tratta di una spiegazione molto semplificata, e il problema che ho descritto sembra banale. Ma questo traguardo è frutto di secoli di intuizioni, scoperte, invenzioni, tentativi, fallimenti e successi. E si somma a ciò anche il lavoro di chi analizza e prepara i dati, e progetta il modello più appropriato. Insomma, c’è dietro un vero e proprio miracolo collettivo, prodotto da tante menti, ciascuna delle quali ha dato il suo piccolo contributo per produrre un risultato senza dubbio stupefacente. Quasi come per un artigiano – mi vengono in mente i liutai – che apprende e utilizza tecniche maturate in decenni, se non secoli di esperienza dei suoi maestri e dei maestri dei suoi maestri.
Per questo credo che, anche se le IA che abbiamo a disposizione necessitano di supervisione, sebbene siano così limitate nei compiti che possono svolgere, si debba utilizzarle con il rispetto dovuto ad un traguardo ragguardevole della mente e della cultura umana. E, soprattutto, come è per ogni strumento, credo che debbano essere utilizzate in modo etico. Come un martello è utile se impiegato nel modo corretto e inutile o addirittura dannoso se impiegato in modo improprio, anche l’IA dovrebbe essere utilizzata in modo più consapevole.
Quale immensa differenza può fare, per qualcuno che non vede, uno strumento che dà indicazioni, che descrive immagini, che legge a voce alta, che scrive messaggi. O che ci facilità una ricerca in un contesto particolarmente complesso. Oppure per una persona che non può muoversi un assistente vocale che controlla l’interruttore della luce o la tv.
Capisco bene la sopresa e il divertimento di chiedere al proprio assistente vocale che verso faccia un animale, o di raccontare una barzelletta, ma mi piacerebbe che l’IA e i suoi progressi nel tempo non inseguissero lo stupore, ma i bisogni dell’uomo.
Vorrei che fosse uno strumento messo a disposizione della comunità, sul quale la comunità sia educata, in modo da poterlo usare il più consapevolmente possibile. Che non ci rimpiazzasse, che non ci impoverisse, ma che compensasse quello che non siamo troppo bravi a fare, che desse maggiore indipendenza a chi non ne ha, che ci permettesse di comunicare meglio, che semplificasse l’accesso alla cultura e all’istruzione. Che ci rendesse, insomma, più umani e umani migliori.