Redazione
Come poter affrontare un evento traumatico? Come poterlo vivere come momento trasformativo? Gianlorenzo Casini, attraverso una testimonianza personale intrisa di umanità si apre ai lettori offrendo una riflessione sulla natura umana e sulla vita, sui limiti e sul tentativo del loro superamento, sulle passioni e sulle opportunità che ogni situazione può offrire.
Buongiorno Gianlorenzo, parlaci un po’ di te e dei tuoi interessi.
Dopo studi classici, nel 2000 mi sono laureato a 26 anni in ingegneria elettrica a Pisa. Desideravo lavorare nel settore per cui avevo studiato, ma poco dopo la laurea, durante il mio primo impiego, ho subito un netto peggioramento alla vista, che mi ha reso ipovedente. Ho provato a resistere per un paio di anni, ma alla fine sono stato costretto a mollare e ho svolto, come molti disabili visivi, un corso per operatore telefonico. Adesso lavoro come centralinista dal 2007 e sono non vedente dopo un calo progressivo andato avanti per qualche anno. All’inizio è stato molto difficile accettare la nuova condizione, ma ora sono sereno. Inevitabilmente, ho dovuto reimpostare tante attività, trovare il modo per svolgerne alcune con ausili, ad altre ho rinunciato. In alcuni frangenti è stato doloroso e gli eventi hanno richiesto il loro tempo per essere accolti e rielaborati. Nel corso degli anni, però, anche se gradualmente e con fatica, sono emersi tanti interessi che mi hanno riempito la vita. In primis quello per la scrittura, con la pubblicazione di opere varie, dalla fantascienza alla spiritualità, ma sicuramente hanno avuto un ruolo fondamentale pure la passione per la Bibbia e la rinnovata e crescente attenzione alla mia vita interiore. L’aspetto scientifico, comunque, non è stato certo messo da parte, poiché è rimasto in me un grande interesse per le scienze in generale e per l’astronomia in particolare, disciplina che davvero mi affascina e mi fa sognare. Mi sono dato pure un po’ da fare nelle associazioni dei disabili visivi, sia a livello sociale che ecclesiale.
Dalla tua esperienza di vita credo che ti sia dovuto misurare ad un certo punto della tua esistenza con una crisi profonda. Quali riflessioni hai fatto in merito?
Innanzi tutto, va precisato che la parola greca “crisi” non ha il significato lugubre e negativo che noi le attribuiamo, poiché significa cambiamento, variazione. La crisi, dunque, in senso etimologico indica semplicemente un cambiamento dello status quo, un’evoluzione.
Il mondo naturale è pieno di esempi di “crisi”, che risulta dunque qualcosa di normale, integrato nel sistema. E, forse, sotto un certo punto di vista, non è che noi rispondiamo a leggi molto diverse. Secondo il filosofo greco Eraclito “panta rei”, cioè tutto scorre, tutto è soggetto a movimento e evoluzione, e risulta difficile dargli torto. In più, molti sistemi reagiscono in maniera creativa e rigenerativa alle sollecitazioni e alle situazioni di stress, anche traumatiche.
L’universo intero, plasmato su scala macroscopica dalla gravità e forse da elementi oscuri che ancora sfuggono alla nostra comprensione, è in espansione e ogni sua parte, come ammassi di galassie, galassie e sistemi solari, ruota intorno a centri di gravità; ad una notte subentra sempre un’alba, che con la sua luce caccia via l’oscurità; le stagioni, con la loro variabilità meteo, vanno e vengono, così come i cicli del sole e della luna; secondo un principio della fisica noto a tutti, nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma; basta guardarsi attorno per notare innumerevoli esempi di trasformazione dell’energia da una forma all’altra, sia naturali che realizzate dalla nostra tecnologia, la chimica vive di reazioni e di reagenti che si combinano per dare altro; per il terzo principio della dinamica, ad un’azione corrisponde una reazione uguale e contraria; ad ogni urto segue un rimbalzo, a meno che non sia anelastico (ipotesi puramente teorica); molti materiali, se sollecitati, grazie alla loro risposta elastica si deformano senza rompersi e possono anche tornare alle condizioni di partenza; il nostro corpo, finché funziona, mantiene un equilibrio incredibile, ma si rinnova continuamente e comunque palesa spesso notevoli capacità di recupero; tanti sistemi naturali, anche se sottoposti ad eventi distruttivi, tendono a ricomporsi e a rigenerarsi (ad esempio, un bosco dopo un incendio).
Si potrebbero fare innumerevoli altri esempi. In pratica, il mondo naturale pare pronto alla novità, alla rigenerazione e al cambiamento, alla ricomposizione e all’assorbimento dei traumi, a seconda dei sistemi e delle situazioni, ma non concepisce l’immobilismo, la staticità. Il mondo naturale sembra resiliente – termine che oggi va tanto di moda, ma che sinceramente fino a poco fa io avevo sentito solo nelle lezioni universitarie di ingegneria con riferimento ai metalli – cioè capace di recupero e di acquisire un equilibrio dopo eventi distruttivi.
E noi? Ne siamo in grado? Possiamo andare oltre i traumi oppure siamo destinati a contemplare vita natural durante la situazione di rottura? Siamo fatti per l’immobilismo o la dinamicità?
Come ti sembra che oggi vengano affrontate le crisi?
Le crisi sono all’ordine del giorno, sia personali che collettive. Ne abbiamo avuto un esempio lampante di recente con la pandemia da covid 19, ma anche prima di questa non mancavano tanti drammi personali a causa di lutti, perdite, malattie, problemi di varia natura e tante fatiche collettive, anche se meno ampie e invadenti dell’ultima che abbiamo vissuto. Certamente, la pandemia di corona virus è stata un evento traumatico, una sorta di deserto di massa, di disabilità sociale, poiché ha obbligato tutti a chiudersi in casa e a seguire regole cui non eravamo abituati, stravolgendo il comune modo di vivere, proprio come accade, per esempio, a chi si ritrova disabile dopo esser stato “normodotato” o comunque privo di particolari problemi o impedimenti.
Comunque, a volte sono un po’ perplesso quando sento parlare di un periodo difficilissimo, conferendogli connotati assoluti, come fosse un trauma mai vissuto prima dall’umanità. Assurdo, basta leggere qualche pagina di storia per capire che guerre, epidemie e carestie ci hanno sempre accompagnato, e l’umanità le ha affrontate senza internet in casa e supermercati pieni a due passi. Però, è senza dubbio l’evento più traumatico dal dopo guerra ad oggi, perlomeno nella nostra civiltà del benessere, che ha reso momentaneamente tutti disabili, limitati, soggetti a rischio, esposti ad una minaccia invisibile che generava ansia.
Il trauma, però, forse è stato maggiore perché rifiutiamo le crisi e non sappiamo più gestirle. Siamo troppo abituati ad uno status quo in cui tutto va bene, o almeno così ci pare, nulla manca e le opportunità paiono illimitate. Quindi, ecco profonde crisi personali quando qualcosa viene a mancare e quando le condizioni cambiano, fino alla crisi collettiva di questi tempi. Privi della forza di lottare e della capacità di tenuta di fronte alle situazioni difficili, ormai preda di tanto virus della perfezione e del dare tutto per scontato, ci si adagia e si impreca contro il destino infame o contro la società malata, incapaci di reazione.
Ripeto, la lettura di qualche pagina di storia non farebbe male, ma sarebbe anche opportuno cominciare a guardarsi attorno per notare quante persone, anche quando tutto pareva andar bene, hanno visto sconvolta o radicalmente modificata la loro normalità. A me, sinceramente, per focalizzarmi su tale concetto basta quello che ho vissuto dai 26 anni in poi, che comunque non mi rende certo immune ad altri eventi luttuosi, ora o in futuro.
Immagino che al momento in cui hai dovuto affrontare la tua condizione di non vedente, che è stata progressiva ma tutto sommato piuttosto veloce, hai avuto tempo e modo di guardarti dentro e di fare riflessioni su te stesso, sulle tue peculiarità ma anche sulle invarianti che caratterizzano ogni uomo. Ce ne vuoi parlare?
Sinceramente credo che, come i sistemi naturali, di fronte a situazioni di crisi siamo fatti per ricomporci, sanarci, ricostruirci. Questo, magari, dopo un inevitabile periodo di lutto, perché non si possono negare il dolore e la fatica che seguono le perdite e i traumi, che necessariamente devono prendersi il loro spazio. Un tempo più o meno lungo in cui si va avanti a fatica, si vive alla giornata, magari si pensa solo a sopravvivere è umanamente comprensibile e sarebbe addirittura strano se non ci fosse. Insomma, perlomeno all’inizio e per un certo periodo la crisi si identifica senza dubbio con la fatica.
Quello che però mi preme sottolineare è che reputo innaturale che tale condizione si stratifichi, diventando permanente. Può essere anche alquanto durevole, ma il darle carattere di immodificabilità è lesa maestà della persona, una negazione della nostra essenza profonda.
Certamente noi non rispondiamo solo a leggi fisiche, a dinamiche naturali o di causa – effetto – anche se nel tempo alcuni filosofi hanno spinto il determinismo scientifico fino a comprendere la persona – e per scuoterci occorre attivazione positiva, spinta interiore a risollevarsi. In sostanza, occorre che qualcosa si muova dentro, quindi un atto di volontà.
È questa l’energia misteriosa che deve attivarsi, il motore interiore che può dare la spinta verso l’oltre, facendoci alzare dal divano della sofferenza e dell’immobilismo post crisi.
Per quanto possa sembrare strano, tale divano a volte può risultare molto comodo e rimettersi in piedi per cercare altro può divenire complicato. Ma, anche solo a pensarci un attimo, di vero tranello trattasi. Perché non impegnarsi per uscire dalla fatica?
Proprio perché è faticoso, saremmo magari portati a rispondere. Ma non è altrettanto faticoso rimanere seduti nel divano della crisi e del lutto? Quale condizione, fra il dimorarci e il provare ad alzarsi, può aumentare la qualità di vita?
Credo che la risposta sia scontata. Certo, se la volontà si attiva, c’è da fare i conti con tentativi di ripartenza e di ritorno alla vita che non sono dall’esito scontato, cioè possono andare a buon fine o no. In poche parole, non è detto che il nostro impegno venga sempre premiato come vorremmo e questo può risultare scoraggiante, ma sappiamo quale è l’alternativa, ovverosia adagiarsi di nuovo sul divano e stare fermi, “sopra il giorno di dolore che uno ha”, per dirla con Ligabue.
Un atteggiamento idoneo da tenere, seppur nella fatica, è l’accoglienza delle crisi. Non è facile né scontato, perché a causa del naturale e immediato rifiuto saremmo in automatico indotti ad altre due modalità di comportamento: l’insabbiamento, cioè il provare per quanto possibile a negare il nuovo stato delle cose, o l’ostilità, che si concretizza in una sfida alle mutate condizioni carica di rabbia. Entrambi questi atteggiamenti, però, rischiano di non essere sani e di opporsi al cambiamento, causando in sostanza un prolungamento del tempo della fatica e del lutto.
A tuo parere, ci sono fattori positivi che possiamo trovare nelle crisi e quali sono?
Secondo me, la prima e più importante modifica a seguito di una crisi può essere quella interiore. Avviene dentro di noi, non nelle condizioni esterne, che semmai in seguito possono risultarne influenzate per la variazione del nostro agire. Comunque sia, senza dubbio sia l’“interno” che l’“esterno” sono chiamati al cambiamento e alla ricomposizione, al ritorno alla vita dopo la sopravvivenza.
In primis, la crisi può infatti essere lo strumento per la scoperta di una parte di noi che altrimenti non sarebbe venuta fuori, per una maggiore conoscenza di noi stessi, della vita, del prossimo. A volte, diviene proprio la modalità che porta a cambiare il rapporto con gli altri, a partire dalla modifica di quello con me stesso.
Forse, ogni esperienza di lutto, come avvenuto anche a me, può condurre ad una maggiore conoscenza personale, ad una maggiore comprensione e accettazione dei limiti propri ed altrui, ad una scoperta o riscoperta della propria parte interiore profonda, della pace e dell’armonia di fondo che ciascuno di noi ha dentro al di sotto delle onde che increspano la superficie.
Ancora, può portare ad uscire da una prospettiva di vita nella quale si dà tutto o molto per scontato, poco si ringrazia e molto si pretende, preda dei tanti virus della perfezione e del senso della pretesa che ci attanagliano. Sono dinamiche tipiche dell’ego che magari è bene conoscere e identificare, per passare piano piano ad altro, ad un nuovo senso di libertà.
I deserti, le crisi della vita, se attraversati con fatica e dignità, tendono a scremare, a ridurre all’essenziale, a dare ancor più desiderio di vita, ma con un senso nuovo e senza la pretesa che tutto si concretizzi ad uno schiocco delle dita.
Per me, certamente il deserto della perdita della vista, che ogni tanto mi fa tornare in crisi e con il quale spesso devo riprendere il dialogo – il che comporta una certa fatica! – è stato comunque fonte del desiderio di coltivare con costanza la vita interiore, ma non solo. Come ho già accennato, sono emersi nel tempo anche passioni e interessi che probabilmente non sarebbero venuti fuori se avessi avuto un lavoro più impegnativo e in linea con gli studi universitari. Sto pensando in primis alla scrittura e a tutto lo studio e alle attività che le ruotano attorno – con la pubblicazione di vari testi, dalla fantascienza alla spiritualità – alla passione per la Bibbia, all’impegno in varie associazioni, alla partecipazione a tanti corsi di mio interesse. E, a tutto questo, spesso si è unita la conoscenza di molte persone e l’instaurarsi di relazioni umane gratificanti. Sì, perché qualunque cosa si faccia, credo sia fondamentale non chiudersi, rimanere aperti al prossimo e alla relazione, addirittura divenire più accoglienti e portati al dialogo.
Mi piacerebbe che tu ci parlassi maggiormente della tua più grande passione: la scrittura. Cosa rappresenta per te?
È stata fondamentale. Mi ha dato grandi stimoli e desiderio di studiare e di approfondire tanti argomenti, mi ha permesso di dare libero sfogo all’immaginazione e alla creatività. A volte, ancor prima di scrivere un romanzo, è stato più importante e gratificante crearlo mentalmente, costruirselo passo dopo passo, immaginare temi, scenari e personaggi.
In altre occasioni, invece, in particolare nelle opere di tipo intimistico e spirituale, la scrittura ha permesso di esprimere ciò che si muoveva dentro e ha spinto a riflettere, a meditare, a rielaborare. A volte, incredibilmente, in momenti di nuova crisi, mi sono trovato come “guidato” da quello che avevo scritto mesi prima. È stata una sensazione strana e affascinante, come se dovessi recuperare un livello e percorrere dei passi per me utili, che io stesso avevo sintetizzato in precedenza.
Ovvio che, perché tutto questo divenisse realtà, è stato necessario imparare un nuovo metodo di uso del pc, tramite la conoscenza a memoria della tastiera e l’apprendimento di programmi di ausilio dedicati ai non vedenti che, grazie alle loro sintesi vocali, guidano l’utente in ciò che fa, scrive, rilegge. Anche questo, inevitabilmente, ha fatto parte della mia crisi e ha costituito, perlomeno a livello informatico, la fatica iniziale, obbligatoria per poter scrivere e compiere tante altre operazioni con gli strumenti tecnologici.
Hai scritto anche romanzi fantascientifici che io ho letto con molto piacere. Chi sente il desiderio di scrivere opere del genere mi suscita tanta curiosità perché deve curare molti aspetti: mi riferisco a quello puramente umano perché dalle pagine del romanzo emergono gli elementi psicologici, sentimentali ed affettivi dei vari personaggi; agli aspetti puramente scientifici, nel caso particolare dei tuoi libri le conoscenze astronomiche, fisiche e tecnologiche recenti; agli aspetti sociologici ed economici, poiché i tuoi romanzi sono pensati in un contesto in cui alcune superpotenze lottano per gli approvvigionamenti energetici e per il dominio.
Tenendo conto di tutti questi elementi, lo scrittore deve costruire panorami futuri credibili e plausibili, unendo capacità letterarie e logiche a fantasia e creatività.
Mi piacerebbe che tu ci dicessi cosa ne pensi.
Intanto spero che chi legge, dopo questa tua analisi, non si immagini che i miei libri di fantascienza siano chissà quali capolavori!
Scherzi a parte, senza entrare troppo nei dettagli posso dire che ci sono vari sottogeneri e alcune correnti nella fantascienza. A me, probabilmente per la mia formazione da ingegnere, piace una fantascienza…con i piedi per terra, che parte da presupposti dell’oggi per immaginare scenari di domani aventi caratteristiche di plausibilità e di realismo. Magari, niente di quello che ho scritto si avvererà, ma ipotizzare future battaglie nel sistema solare per le fonti di energia o per lo sviluppo di nuovi farmaci nello spazio credo sia plausibile. È da secoli, anzi da millenni, che l’umanità combatte per il potere e la supremazia, semplicemente lo fa con tecnologie sempre più raffinate. Sotto un certo punto di vista, potrei dire che la mia fantascienza appartiene al filone “hard”, poiché così viene indicata la sua “corrente” che prende spunto da solide basi scientifiche del presente per immaginarsi l’oltre.
Poi, come dicevi tu, le sfide future negli ambienti spaziali sono comunque combattute da uomini e donne con i loro sentimenti, egoismi, sogni, grandezze e miserie. Come era mille anni fa, come sarà fra mille anni. Per quanto riguarda questo aspetto, però, credo di avere ancora da imparare, perché faccio fatica a tratteggiare i personaggi, a farli uscire dalle pagine, come suol dirsi. Ci provo, ma rientra meno nelle mie corde letterarie. E, anche se nella fantascienza magari non occorre chissà quale analisi intimistica, personaggi compiuti e ben tratteggiati arricchiscono un libro e fanno appassionare il lettore alle loro vicende.
Diciamo che ho fatto il possibile per combinare scienza, spazio e sfide future con tecnologie all’avanguardia con la caratterizzazione psicologica e umana di chi combatte, soffre, perde e vince, spero con buoni risultati, forse più probabilmente con risultati alterni..
Ti sottopongo alcune riflessioni che nascono dall’ultimo libro che sto leggendo: I neuroni magici. Musica e cervello. Louise Bourgeoris dice che “se non si può abbandonare il passato, bisogna ricrearlo. Jean-Pierre Changeux, eminente neuroscienziato commenta a tale proposito: “Il cervello ha una storia, e ogni individuo ha la storia di tutto ciò che ha vissuto, di tutto ciò che ha immagazzinato. C’è un aspetto di integrazione, di interiorizzazione tramite il cervello, che non funziona in maniera passiva. Prende e proietta. Qui si vede chiaramente che noi funzioniamo dall’interno verso l’esterno. Si proietta scrivendo e, ugualmente, facendo eseguire delle opere”. Ovviamente in questo libro Changeux sta parlando della composizione musicale. Rispetto alla tua esperienza di scrittore quali considerazioni ti suscitano queste parole?
Sono in buona parte d’accordo, con qualche distinguo. Sul passato, intanto credo sia ovvio dire che non può essere abbandonato. Non abbiamo in testa hard disk cerebrali che possono essere formattati e cancellati con un click, chissà se avverrà in futuro. Ma neanche il passato deve essere ricreato, sarebbe innaturale. Inoltre, a differenza di alcuni scienziati della mente, credo che non siamo caratterizzati solo dalla componente mentale, poiché abbiamo una dimensione interiore più profonda, forse meno accessibile, che va oltre la mente e con essa può entrare in dialogo, dato che non si tratta di due canali a compartimento stagno.
Semplicemente, credo che il bagaglio del passato, che ci identifica, possa essere reintegrato e riconciliato. Con i suoi aspetti negativi e positivi, successi e fallimenti, identifica chi attualmente siamo, sia a livello mentale che interiore, ma con dinamicità.
Questa, per esempio, è una grande lezione della Bibbia: il passato non si può buttare via, ma dà le basi del presente e il presente può spingere verso la novità del “d’ora in poi”. Così la freccia del tempo in noi viene riconciliata e unita. Non ci sono separazioni: il mio impasto, che deriva dal passato, può essere modellato per dare luogo a nuove forme.
Sinceramente, non so se così ho risposto alla tua domanda. Comunque, penso alla mia esperienza di scrittura. Il passato è entrato, con la sua preparazione e attitudine allo studio, ma per assumere una forma nuova, con variegate modalità di espressione, che continuano a cambiare nel tempo. E pure io cambio, così magari si evolve ciò che scrivo e come lo scrivo. È una modalità dinamica, proietto fuori quello che risente del passato, ma che deriva in continuazione dal reimpasto che ha luogo nel presente, che a volte mi fa cambiare prospettiva.
La scrittura quindi è stata ed è, per me, reintegrazione del passato ma anche novità costante, espressione e sintesi di chi sono al momento in cui scrivo, che costituisce la base di chi sarò in futuro, magari a seguito di cambiamenti e di nuove rielaborazioni e ricerche.
Grazie Gianlorenzo del tempo che ci hai dedicato. Le tue parole sono un invito alla creatività e a vivere pienamente ogni aspetto della nostra personalità, sono parole incoraggianti.
Spero sia così. Le crisi sono fatica e opportunità, ma la prima quasi sempre sopraggiunge in automatico, la seconda se la desideriamo e ne andiamo in cerca. La trasformazione in opportunità, inoltre, implica il ricorso a doni essenziali quali la creatività e l’immaginazione, che di certo i sistemi naturali, anche se a volte così pronti a reagire e ad evolversi, non possono vantare.
Dopo anni in cui provo a fare i conti con i miei deserti, magari con risultati alterni, credo comunque di poter asserire con convinzione che siamo fatti per l’oltre, per l’uscita dalle crisi, per provare ad usarle bene, trasformandole in opportunità, in cambiamento, in occasioni di crescita e di scoperta di nuovi interessi, relazioni, attività. Perché ciò avvenga, è bene davvero provare a variare lo stato mentale, evitando una trappola mortale: quella di pensare in continuazione, come fosse un eldorado perduto, alla situazione pre-crisi. Il passato, con la sua carica di nostalgia e di ricordo, può davvero essere quello che più si oppone all’avanzare del futuro e, in particolare, alla vita nel presente, nel “qui ed ora” in cui l’adattamento, il riequilibrio e il rinnovamento possono avvenire con la nostra adesione.
Letture:
Pierre Boulez, Jean-Pierre Changeux, Philippe Manoury – I neuroni magici. Musica e cervello – Carocci Editore