Redazione
Melodia, armonia, senso estetico, interpretazione, ascolto, composizione. Il M° Francesco Corti, con profonda sensibilità artistica, preparazione culturale, spessore ed intelligenza, ci aiuta a sviscerare alcuni degli aspetti più sottili che intercorrono fra natura umana e musica, fra arte e scienza.
Ciao Francesco, tu sei un musicista. Ci piacerebbe sapere di cosa ti occupi, in cosa sei specializzato e come è nata questa grande passione per la musica.
Mi chiamo Francesco Corti, sono clavicembalista, organista e direttore d’orchestra. L’amore per la musica è nato in casa grazie ai miei genitori entrambi musicisti. Sono seguiti studi ai Conservatori di Firenze, Perugia ed in seguito di Ginevra ed infine di Amsterdam. Da qualche anno affianco all’attività concertistica quella didattica, grazie ad un posto di professore alla Schola Cantorum di Basilea.
Nel tuo percorso quali sono stati i maestri più che significativi che ti hanno portato ad intraprendere la tua carriera da musicista?
Come dicevo, la mia famiglia è stata molto centrale nella mia formazione musicale. La fortuna di accostarsi al fare musica fin da bambino come se fosse un gioco ha dato senza dubbi un’impronta molto forte sulla mia idea di musica come mestiere, come espressione di vita, come attività quotidiana. In particolare mia madre ha avuto da questo punto di vista un’influenza decisiva. Fra coloro che considero i miei maestri ci sono Wijnand van de Pol, Christophe Rousset, Alfonso Fedi, Bob van Asperen, Mark Minkowski, Gabriel Garrido, Jordi Savall, Masaaki Suzuki, Alfredo Bernardini… E poi tasti musicisti che mi hanno influenzato attraverso le loro incisioni.
Elvira Brattico e Marcus Pearce hanno indagato su aspetti poco tangibili e cioè sull’effetto estetico della musica, suddividendo questo effetto in 3 elementi diversi: l’emozione estetica che si prova ascoltando il brano musicale, il giudizio estetico legato alla bellezza o meno della musica e la manifestazione di preferenza, riferita ai gusti soggettivi di stili ed autori. Da un singolo brano musicale emergono i tre protagonisti dell’atto del suonare e ascoltare musica: il brano stesso, l’ascoltatore e l’interprete. Ovviamente dietro il brano vi è un autore. L’ascoltatore ha una sua cultura, ha una sua sensibilità ed un suo vissuto e mentre ascolta il brano si trova in un determinato ambiente che può influire sull’ascolto del brano stesso. L’ascoltatore ha un presente, ma anche un futuro, così come l’interprete al momento che esegue il brano. Partendo dal brano, la struttura formale e matematica ed il concetto di armonia ha origine con la scuola di Pitagora. Come può secondo te un aspetto strettamente formale, matematico ed oggettivo, tanto da poter essere descritto con una legge, nascere in realtà da un sentimento estetico, difficile da descrivere, quasi come fosse un fatto privato?
La musica ed il piacere che ne traiamo, derivano fondamentalmente da una serie di canoni che sono culturali e variano sensibilmente nel tempo. Quello che è meraviglioso è il profondo bisogno umano della musica, sia a livello emotivo che a livello intellettuale. Questo bisogno viene modulato nella storia in modo sorprendente. Rimane sorprendente come musica composta in tempi lontanissimi, come ad esempio quella di Bach, scritta in un contesto totalmente diverso dal nostro, per persone con abitudini e gusti molti diversi dai nostri, ci emozioni, ci tocchi in modo profondo, ci faccia scoprire cose in noi stessi che non potremo scoprire altrimenti. La musica (ed in particolare la musica di Bach) è per me una componente imprescindibile della mia vita, è qualcosa che le dà ordine e la arricchisce.
Da come è formulata la domanda, mi pare che sia preso un punto di vista moderno sull’interpretazione della musica, che non è forse ideale quando parliamo di Bach. Già la divisione in tre stadi: brano, ascoltatore ed interprete come entità a sé stanti, questo è una categorizzazione molto recente. All’epoca di Bach la divisione tra brano ed interprete non era così: composizione, interpretazione ed esecuzione (e quindi anche ascolto) erano profondamente interconnessi, anzi erano spesso riuniti nell’improvvisazione. Il brano nasce al momento, dura il tempo dell’improvvisazione e quindi è un vero e proprio a due, in cui il ruolo dell’”interprete” (un po’ un “terzo incomodo”) viene a svanire. Nel corso dell’Ottocento la composizione del brano si allontana e separa sempre più dall’interprete. Viene quindi pubblicato per un pubblico con cui il compositore magari non ha alcun contatto diretto e colui che esegue il brano è totalmente estraneo a colui che lo ha creato. Nelle partiture emerge una fioritura di indicazioni su come eseguire il brano, in modo che il risultato finale arrivi all’ascoltatore in un modo vagamente controllato. Fino a tutto il Settecento questa divisione non c’è. Analizzare quindi il ruolo dell’interprete al tempo di Bach è molto complicato, perché all’epoca era un ruolo che non era ancora emerso. Il brano musicale va poi descritto per quello che è. Noi abbiamo un’idea sacrosanta del brano musicale come evento sonoro, eppure dall’epoca di Bach non abbiamo eventi sonori che siano arrivati a noi. L’interprete quindi si trova nella situazione complicata di immaginare un evento sonoro di cui non è rimasta traccia. Abbiamo fondamentalmente due tracce: alcuni strumenti che ci sono arrivati dal passato e poi delle partiture. Ma, ahimè, queste partiture sembrano spesso ricette di cucina, cioè una serie di indicazioni il cui risultato non si può controllare con sicurezza o prevedere. E a questo si aggiunge il problema di come queste partiture siano giunte a noi, da chi sono state copiate, quanto sono state modificate negli anni…
Riguardo le tre divisioni: compositore, interprete e ascoltatore, emergono tre livelli di aspettativa diversi tra loro in conflitto. Le aspettative di un compositore del passato sono in larga misura insondabili direttamente e sono quindi da ricostruire ed immaginare; quelle dell’interprete sono complesse, perché sono un misto di studio, di ascolto, di abitudine, che possono essere talvolta in conflitto e talvolta in armonia con quelle dell’ascoltatore. Parlando di autori del passato come Bach, si può dire che il brano scritto è fissato nel tempo e ma tutte le altre aspettative sono in continua evoluzione.
Secondo te Francesco, quale può essere il contributo delle neuroscienze all’arte?
E’ un contributo che tende ad assolutizzare ambiti e cose che vanno prese molto più con le molle e contestualizzate in un periodo storico. Oggi ascoltare Bach non è come ascoltarlo a fine Settecento.
Sono, a mio avviso, due cose separate. Nessuno ha veramente interesse a ricreare quello che l’ascoltatore dell’epoca di Bach ha sentito e ha provato attraverso l’ascolto della musica. Quello in cui le neuroscienze per contro ci possono aiutare, è capire perché questa musica ci colpisca ancora e come questa musica abbia potuto “sorpassare” i secoli e non perdere almeno una buona parte del suo significato emotivo ed intellettuale. Ovviamente l’ascolto di musica attento è un’unione di piacere intellettuale e piacere estetico; è musica che ci commuove e allo stesso tempo ci stimola intellettualmente. Essa ci trasmette un messaggio valido per noi oggi. Per ragionare su questo, le informazioni che le neuroscienze ci hanno fornito sono fondamentali. La musica è ovviamente un sistema di eventi creato da encefali per comunicare con encefali, e per creare concetti di grande profondità emotiva e intellettuale. La musica deve quindi essere ancorata ad una matrice fisiologica talmente universale da permettere a questi eventi di sorpassare praticamente indenni secoli e secoli. Secoli in cui la musica è stata “strapazzata” in tutti i sensi, passando per generazioni di copisti, di interpreti, rivoluzioni di generi e cambi impossibili. Ovviamente viviamo in un contesto estetico relativamente simile a quello di Bach: ad esempio consideriamo la terza maggiore una consonanza, così come lo faceva Bach. Da Bach ad oggi ci sono state rivoluzioni estetiche e cambi di abitudini, ma sentiamo la sua musica decisamente più vicina rispetto ad esempio a quella del tardo Medioevo, che comunque ha anch’essa ancora un effetto profondo su di noi. Tra l’altro essendo la musica un’arte che vive solo nell’atto, ha bisogno comunque di un passaggio di “traduzione” per avere un effetto. Quindi non è un oggetto che vive di per sé, ma vive solo nel momento in cui la si fa. Il fatto veramente straordinario è che istruzioni che provengono da secoli fa sono per noi oggi qualcosa di rivelatorio. E questo è sempre stato vissuto come un mistero ed anche come una specie di magia. Le neuroscienze ci aiutano a capire questo fenomeno e anche a portarlo a livello umano, a togliere anche un po’ l’aria di mistero. La musica è stata anche sempre considerata un’arte in certo qual modo pericolosa, perché gli effetti sul cuore e sulla mente umana erano difficili da analizzare, dato che l’oggetto è qualcosa di assolutamente volatile. Tutto dipende da un contesto di gusto musicale ed è per questo che mi piace paragonare la musica alle ricette di cucina. Noi infatti siamo abituati a determinati gusti: messi di fronte a sapori esotici rimaniamo spesso spiazzati. Ciò non toglie che abbiamo bisogno di nutrirci. Nell’encefalo non c’è un “gusto” assoluto della musica, mentre è presente e vive il bisogno della musica stessa.
Secondo te la musica quale apporto può dare alla conoscenza della natura umana?
La musica è un aspetto fondamentale dell’essere umano come animale civilizzato, allo stesso livello del linguaggio. E’ qualcosa che unisce la comunicazione stretta ad una serie di fattori emotivi, intellettuali, estetici.. Capire un po’ come funziona la musica vuol dire capire come funzioniamo noi nel senso profondo del termine ed in questo le neuroscienze hanno dato una mano fondamentale. Perché ad esempio la risposta del corpo alla musica è così dirompente? Pensiamo solamente alla risposta del corpo ad un ritmo marcato, a come ci mettiamo a muovere o a ballare. E’ qualcosa che unisce mente e corpo in modo straordinario! Lo studio del cervello musicale è un arricchimento talmente profondo per la nostra fruizione della musica, che risulta quasi scandaloso come pochi musicisti siano al corrente di questi studi. Penso sia ora di liberarci dell’armonia delle sfere, della musica come un dono magico che ci è piovuto in testa. Essa è un prodotto profondamente umano che deriva da un bisogno dieri “anatomico”. Insieme all’arte visuale e alla letteratura, la musica sopravvive allo scorrere del tempo e non perde il suo potere di arricchire la nostra vita. E’ il messaggio ancora valido di persone che ci parlano in modo diretto dal passato.
Prima non sussisteva un rapporto diretto tra ascoltatore ed autore. Per apprezzare la musica cosa credi sia più importante, l’abitudine all’ascolto, la competenza musicale o una sensibilità innata per la musica? Te lo chiedo sia da amante della musica che da professionista.
Per apprezzare a fondo la musica occorrerebbe un po’ di tutto quanto. Magari la sensibilità e l’abitudine sono due aspetti della stessa cosa: il contesto in cui una persona sviluppa le sue abitudini musicali, sia nel senso di ascolto che di esecuzione. Purtroppo questo dipende da una serie di fattori che non sono tutti controllabili direttamente. Una quotidianità con la musica è qualcosa a cui una persona dovrebbe avere diritto. E mi riferisco alla musica alta, a quella musica che sopravvive nel tempo, che è in certo modo immortale. Per godere di queste opere occorre sapere prima di tutto che esistono e capire che sono opere accessibili, opere fruibili da qualsiasi essere umano. Ovviamente esistono dei canoni estetici di cui bisogna appropriarci. Tutte le forme d’arte si basano su un canone estetico con cui si prende familiarità. Purtroppo noi viviamo in un’epoca che combina vari assurdi. Innanzitutto abbiamo la predilezione assoluta per opere di autori morti, nel senso che ci riferiamo alla musica del passato con molta più facilità rispetto alla musica nuova, cosa che suscita discussioni senza fine. Inoltre ascoltiamo con grandissima gioia opere rigorosamente estrapolate dal contesto. Ad esempio, Mozart scriveva per un pubblico che condivideva i suoi orizzonti estetici, e che viveva in un mondo profondamente coerente. Oggi siamo abituati a mescolare tutto. Questo sarà anche un bene per molti versi, ma questa abitudine un po’ strana ci obbliga a salti estetici continui e a dover allargare di continuo il nostro contesto. Esempio banalissimo: più o meno all’epoca di Bach, un compositore inglese fonda a Londra un’accademia di musica antica per ravvivare la musica del passato che aveva bisogno di un contesto un po’ museale per essere eseguita. Ebbene, la musica per loro già passata di moda era quella che aveva più di trent’anni! In confronto, noi viviamo in un sistema in continuo cortociruito.
L’abitudine all’ascolto è anche una presa di coscienza della nostra coabitazione con la musica nel nostro quotidiano. Dal dopoguerra in poi la musica è talmente onnipresente da essere diventata un sottofondo costante. Si può dire che il suo ruolo è un po’ come il rumore di fondo, basti pensare alla musica nei centri commerciali per invogliare le persone a fare acquisti. Musica priva di significato, che io chiamo musica da ascensore e che ha fatto danni irreparabili alla nostra capacità di ascolto, perché ci crea un rapporto di coabitazione priva di attenzione e priva di interesse con musica alta. Succede ad esempio di ascoltare musica di Mozart in sottofondo, mentre si fa prepara un soffritto. Cosa per me terrificante, perché a furia di ascoltare in questo modo, si rischia di storpiare in modo molto aggressivo un oggetto artistico di una perfezione disarmante. Nello stesso senso noi ci dimentichiamo quanto prezioso sia un contesto di silenzio.
Tu Francesco mi stai dicendo che la musica alta ha necessità dell’attenzione. Giusto?
Certamente, nessuno ad esempio si metterebbe a leggere una poesia del Petrarca mentre passa l’aspirapolvere, magari a farselo leggere in sottofondo, perché non c’è modo di apprezzare una larga parte di quello che l’autore ha messo dentro quel prodotto, e entrambi (l’autore e l’ascoltatore) stanno solo perdendo tempo. Direi che per apprezzare la musica “alta” (scusa il termine un po’ odioso) serve quasi più l’attenzione, che non l’abitudine. E per avere questa attenzione serve anche un contesto di silenzio in cui la musica diventa un atto importante. Il contesto deve favorire l’attenzione.
Continuando con Bach, credo che quasi chiunque provi piacere dall’ascolto delle sue composizioni caratterizzate da una struttura chiara, consonante, percepita come congruente, contraddistinte da una grammatica compositiva ben individuabile. Ascoltare un suo brano è un po’ come osservare un’opera del nostro Piero della Francesca (dico nostro perché anche tu sei nato ad Arezzo): è difficile non godere dell’equilibrio delle sue proporzioni. Che ne pensi?
Lo trovo stimolante, ma non appropriato. Sono due visioni del mondo completamente diverse. Non credo poi che Bach sapesse chi fosse Piero Della Francesca. La cosa più interessante, è a mio avviso, indagare sul contesto del compositore: è là che si riescono a trovare le maggiori influenze e punti di appoggio. C’è questa idea strana per cui le arti vadano ad una velocità diversa, a livello di sviluppo. Bach a mio avviso deve essere paragonato alla grande esplosione artistica del barocco tedesco, in cui all’estrema ricchezza e complessità delle decorazione sottostà una profonda conoscenza della struttura e dell’equilibrio armonico delle componenti. Quello che è perfino più interessante è come Bach si relazioni alla filosofia dell’epoca, in cui affiora veramente uno studio interessante sulla mente umana e su come la mente umana ami la complessità. C’è questa frase molto bella di Leibniz: “La musica è un esercizio occulto dell’aritmetica, nel quale la mente non si rende conto di calcolare.” Frase che si applica in modo perfetto alla musica di Bach! Sappiamo che Bach aveva contatti con Wolff, uno dei grandi filosofi dell’epoca. In Wolff c’è infatti un’idea del mondo che tende verso la consonanza, che poi è equivalente alla divinità, in un contesto in cui tutti sono religiosi. Un mondo è veramente perfetto se tutte le sue componenti ruotano alla perfezione come se fosse un’enorme macchina. Se la macchina non funzionasse, se cioè questo mondo non tendesse alla perfezione non sarebbe possibile separarlo dal sogno. Sembra questo esattamente l’ideale morale che Bach applica alla sua musica, un aggeggio talmente ben congegnato che non ci rendiamo conto che gira. Un po’ come loro vedevano il mondo, qualcosa di controllato da una divinità, immaginato come una specie di orologiaio.