Redazione
La riflessione artistica come indagine della realtà e l’arte come strumento di conoscenza. Danilo Petri ci accompagna attraverso un viaggio lungo i secoli ripercorrendo la produzione artistica umana con il preciso intento di mettere in evidenza le svolte concettuali e formali che hanno determinato nuovo sapere.
Prendiamo per buona questa mia fredda definizione dell’arte: veicolo di conoscenza ed espressione della natura, delle profondità e delle vette della coscienza umana, capace di produrre il bello.
Il corpo
Il linguaggio produsse il più grande salto in avanti dell’evoluzione della nostra specie ma la classificazione degli animali avvenne attraverso la pittura. Homo sapiens ebbe subito l’urgenza di definire per capire e perseguire la ricerca. Noi conosciamo, per esempio, le affascinanti scene rupestri della grotta di Chauvet (paleolitico superiore, circa 30.000 anni fa), dove animali di molte specie sono dipinti con maestria e sorprendente veridicità.
Già nel paleolitico si comincia anche a scolpire statuette che, in particolare, rappresentavano la figura femminile e con essa la fertilità (La Venere di Hohle Fels – 35.000 anni fa circa). Fin dagli inizi, la domanda “cosa è la realtà, cosa siamo noi” è stata il nostro assillo esistenziale e il motore sia dell’arte che della scienza e l’esercizio estetico è stato il metodo di conoscenza principale, attraversando la nostra storia fino e ampiamente oltre la “prima rivoluzione scientifica” di Talete e Anassimandro.
Nel neolitico, l’osservazione dell’uomo, della sua morfologia, portò alla nascita del ritratto, attraverso il quale si cercò di dare conto della realtà concreta e trascendente della sua natura. Millenni che videro il formarsi di grandi civiltà, della nascita dell’agricoltura e di enormi sviluppi nell’arte visuale. L’esempio migliore e più noto risale alla stilizzazione del corpo umano realizzata dagli egizi che, attraverso calcoli elaborati, formularono un codice astratto e arbitrario con il quale completare, con la misura, la percezione visiva.
Con i greci l’empirismo guida l’esperienza e i filosofi della scuola di Mileto si rifanno alla percezione diretta visiva, a misure concrete; questa concezione filosofica naturalistica influenzò la nascita e lo sviluppo dell’arte scultorea greca fino ad arrivare a Policleto (V secolo a.C. – si conoscono solo copie delle sue opere) il quale scrisse un trattato (canone) nel quale formulò un’antropometria basata sull’esperienza, su un legame fra teoria e pratica. Tale visione a propria volta influenzò gran parte della scultura greca successiva che conosciamo come “età classica”. Quindi ben oltre la filosofia di Platone, il quale sulla scia di Pitagora, fece tornare in auge una teoria geometrica a priori della forma dei corpi che, malgrado l’opposizione di Aristotele che sosteneva l’osservazione empirica, dette vita ad un proliferare di “canoni” di misurazione basati su concezioni trascendentaliste.
Con il Rinascimento riprende il dibattito (sul corpo umano) fra canoni aritmetici e morfologici. Il lascito di Vitruvio torna in auge (Ghiberti ne sarà sostenitore), anche grazie al famoso disegno Leonardesco.
E Leonardo da Vinci sarà fra coloro che privilegiarono l’osservazione diretta e quindi canoni empirici. Leonardo fu un instancabile osservatore (anche di cadaveri) e considerava l’esperienza come fonte inesauribile e impareggiabile del sapere, per capire, disegnare, dipingere e inventare; esercitò la sua arte pittorica con totale dedizione al suo pensiero anche quando si cimentò con il sacro e i suoi lavori rivelano un perfezionismo e una forte aderenza alla realtà anche quando raffigurano e simboleggiano aspetti della dottrina cristiana.
Ma prima di Leonardo, l’ingegno rinascimentale per eccellenza, uomo “universale” anch’egli, fu Leon Battista Alberti, architetto, filosofo, scrittore e maestro e teorico di pittura e scultura, linguista, crittografo (anche musicista e pittore, forse con modesti risultati). Alberti ruppe con i canoni di tipo platonico e introdusse la dimensione del volume evitando ogni tipo di gerarchia fra le parti del corpo. Per quanto in questa esposizione serve, fu il primo ad introdurre la “prospettiva” e fu maestro di Piero della Francesca, influenzò persino Michelangelo e quasi tutti gli artisti che seguirono.
Nel ‘500 le grandi dispute sui canoni antropometrici cominciano a ridursi per poi concludersi con l’ingresso sulla scena scientifica dell’anatomia moderna. Il De humani corporis fabrica libri septem di Vesalio fu un’opera rivoluzionaria. Con l’anatomista fiammingo, medico di corte con Carlo V e Filippo d’Asburgo, l’indagine fisiologica supera d’un balzo la medicina galenica e inaugura un nuovo percorso per la scienza del corpo umano.
In questo orizzonte riassuntivo, che cerca di cogliere il rapporto fra scienza e arte, sono stato costretto a tralasciare l’arte etrusca e romana (e poi bizantina), senza dimenticare la grandezza dell’architetto Vitruvio, che, come detto, sarà considerato nella sua vera importanza solo nel Rinascimento, e quella del poeta e filosofo Lucrezio: entrambi poco influenti sugli sviluppi artistici del medioevo. Quindi ho saltato l’intero corso dell’alto medioevo durante il quale l’arte si manifesta essenzialmente religiosa e il motore di ogni espressione artistica non sarà più l’uomo ma Dio.
Le emozioni
Sentimenti, passioni, emozioni sono sempre stati oggetto della ricerca incessante di verità sulla natura umana. I filosofi a lungo, anche presupponendo Dio, ne hanno sempre scritto, ma il linguaggio ha costretto dentro ai suoi limiti semantici la capacità di capire e anche la scienza non ha potuto fuggire da questa gabbia: ancora oggi il problema dei nomi è gigantesco e i migliori si sforzano di trovare termini e significati sempre più chiari e indiscutibili (il termine “emozioni” è ancora in discussione persino nell’opera di eminenti neuroscienziati). Il nostro pensiero si muove nel recinto delle analogie e delle metafore, simboli ed evocazioni sono al centro del nostro ragionare. Le parole sono sintesi e strumento del pensare e danno forma alle conoscenze e agli errori. Ma accanto alla filosofia e alla scienza, al discorso, all’esperimento, all’osservazione meticolosa, gli uomini dispongono dell’arte. Quindi la storia dell’arte è storia di conoscenza non solo di estetica.
Il tentativo di sondare la natura umana nei suoi aspetti interiori inizia con l’arte greca: le opere acquistano volume, espressioni, spiritualità e si cerca di rappresentare il movimento, la tensione dei muscoli, l’armonia delle proporzioni. Impressionante bellezza scaturita da un incessante studio della natura umana.
Da qui l’arte ellenistica che riduce la ricerca della perfezione fisica e degli ideali di bellezza tanto cari ai greci per dedicarsi a soggetti e forme ancor più naturalistici. Le emozioni, gli stati d’animo, le condizioni fisiche vengono rappresentate in un racconto vero e proprio svolto con la scultura.
Come detto, l’alto medioevo offre ben poca ricerca artistico scientifica sulla natura umana e dobbiamo arrivare a Cimabue per rivedere nell’espressione artistica la volontà di rappresentare l’uomo e la sua umanità: anche se l’iconografia non cambia, le sue figure superano le forme ieratiche e idealizzate dell’arte bizantina e si intravedono, nei corpi e nei volti (si pensi alla splendida Crocefissione di Arezzo), emozioni, sofferenza, angoscia.
Da qui e con Giotto e soprattutto con Masaccio una forma di “realismo” torna ad imporsi e si può ben dire che la conoscenza della natura umana si fa strada, ancora una volta, attraverso l’espressione artistica.
In quasi tutta l’arte rinascimentale i soggetti rappresentati perdono il vuoto espressivo dell’arte bizantina e gli artisti cercano di identificarne l’individualità e le emozioni. Ma la ricerca di una bellezza stereotipata, classica direi, continua a prevalere e non si vedono, nei volti, rabbia o paura, felicità o tristezza, meraviglia e sospetto, incredulità o disgusto.
Leonardo si interrogò sui “moti dell’anima” ma restò, in un certo senso, prigioniero del suo perfezionismo e l’idealismo nelle sue opere ancora prevalse sul vero.
Alla fine del ‘500 il mondo conoscerà Caravaggio e il “vero” entra di prepotenza nell’arte pittorica. Con lui la figura umana perde ogni velleità di pura bellezza, è viva e comune, colma di difetti, reale. Le emozioni vividamente si esprimono nei volti, nei corpi, nei movimenti; persino quelle più estreme e impressionanti.
Non fu subito amato né sostenuto, tranne che dal circolo culturale che lo ospitò a lungo e dal quale, pur essendo un “ignorante” trasse sicuramente buone influenze. il cardinale Francesco Maria Bourbon Del Monte ospitò Caravaggio e a Palazzo Madama si ragionava di musica (il padre di Galilei, Vincenzo) di fisica e matematica (Guidobaldo dal Monte, fratello del cardinale) e queste conversazioni e interessi erano evidentemente connessi ad un nuovo modo di relazionarsi con la natura delle cose: stava nascendo lo spirito della scienza moderna e Caravaggio e la sua opera erano perfettamente allineati a questo “metodo” con il quale studiare e rappresentare l’esperienza umana.
L’influenza di Caravaggio nella storia dell’arte che seguì è nota, il suo modo di rappresentare le emozioni umane è stato di esempio nei secoli.
Il seicento sarà il secolo della scienza e un nuovo paradigma incontra anche l’arte. Se fino a Caravaggio l’arte fu un assoluto veicolo di conoscenza, oltre ad essere espressione di estetica sublime, con la rivoluzione di Galileo, con la filosofia di Cartesio e poi di Newton, la scienza si prende il primato ma gli artisti continuano uno stretto rapporto con essa, questa volta seguendone le scoperte e facendone tesoro.
Le nuove conquiste scientifiche influenzeranno la pittura sia sul piano delle conoscenze del corpo umano sia delle emozioni ma decisive saranno le scoperte che riguardarono la luce e che si imporranno all’attenzione dei pittori soprattutto nel XIX secolo.
La luce
La luce, nella pittura, è stata a lungo oggetto di studio per esigenze strumentali: l’illuminazione come indicazione, usata per favorire l’attenzione dello sguardo sul soggetto ritenuto principale nell’opera (si pensi alla Vocazione di san Matteo di Caravaggio).
Praticamente tutti gli artisti sopra menzionati hanno usato per i loro scopi “comunicativi” la luce, ma non posso non menzionare un precursore straordinario come Van Eyck e il suo celebre quadro del 1434, il ritratto dei coniugi Arnolfini: qui la luce è naturale, illuminazione, ombre e riflessi, sono dipinti con autentico realismo.
Per quanto serve a questo compendio del rapporto fra scienza ed arte, non sembra utile gran parte della storia della pittura seicentesca e settecentesca nei suoi aspetti distorsivi, ancorché spettacolari, del Barocco, che appare come una forte contrapposizione al nascente secolo dei lumi, della razionalità, della scienza. Fanno eccezione, per esempio, il realismo di Rembrandt e di altri olandesi e il vedutismo veneziano dove il paesaggio diventa protagonista e viene rappresentato in maniera oggettiva e “scientifica”.
Quindi dal barocco settecentesco al neoclassicismo la pittura si era trincerata in una risposta puramente estetica, ridondante e poi sublime, ai secoli della ragione e della scienza, finché verso la metà del’800 gli artisti cercarono la luce naturale e uscirono dai loro studi (en plein air) per dipingere la natura e le cose e i soggetti umani dentro di essa, da essa illuminati. Cominciarono a dipingere la luce stessa.
Il primo a percorrere un nuovo cammino nella rappresentazione della luce nel paesaggio fu K.M.W.Turner, che ritroveremo anche come precursore di un arte astratta e riduzionistica ma Monet può essere considerato il pioniere di questo approccio, di nuovo non solo estetico ma conoscitivo, alla pittura. Con l’amico Renoir e con Manet comincia un ambizioso programma: trasferire nella pittura dei paesaggi gli stessi meccanismi ed effetti che regolano la visione umana. Lui stesso dirà “(…) quello che cerco: l’istantaneità, soprattutto l’involucro, la stessa luce diffusa ovunque”. Quindi Monet si dimostra quasi indifferente al soggetto, le forme gli servivano solo per tradurre pittoricamente il suo interesse per l’irradiazione della luce.
Nel gruppo dei “nuovi” che riunirono le loro opere nella mostra svoltasi presso un vecchio studio fotografico di Nadar (eclettico personaggio e grande fotografo) nel 1874, mostra che risultò fallimentare, vi era anche Cezanne, che di li a poco diventerà il pittore più influente della sua epoca.
Cezanne con la sua pittura fece un salto conoscitivo enorme anticipando la scienza moderna per quanto concerne la visione. Se gli impressionisti credevano che la vista fosse soltanto la totalità della sua luce, per Cezanne la luce era solo l’inizio: “l’occhio non basta” disse e di Monet “è solo un occhio, ma che occhio!”. Le nostre impressioni esigono un pensiero, serve la mente, diceva il pittore. La visione è un processo complesso che parte dalla luce, passa attraverso meccanismi cerebrali complessi fino a giungere alle funzioni cerebrali di ordine superiore, alla coscienza. Questo ordine Cezanne non poteva conoscerlo in questi termini, ma comprese che la visione è una creazione, che guardare è creare. Le opere di Cezanne costringono a guardare tutto il processo della visione, dall’incertezza iniziale suscitata dal mosaico di colori alla realtà soggettiva di ognuno. Quindi il dipinto non emerge semplicemente dai colori o dalla luce ma dalla mente dell’osservatore. Ci volle molto alla critica per capire la grandezza rivoluzionaria di questo artista ma il suo lavoro poi fu enormemente apprezzato, soprattutto dai pittori che seguirono, uno su tutti Van Gogh. Cezanne non influenzò soltanto impressionisti e post-impressionisti, la sua lezione servì moltissimo agli sviluppi dell’arte astratta, cubista, concettuale.
L’inconscio
Forse la concezione moderna di inconscio può esser fatta risalire al grande libro di Freud, L’interpretazione dei sogni (pubblicato nel 1900) anche se non si dovrebbero dimenticare Schopenhauer e Nietzsche ma, per quel che serve a questa esposizione, non possiamo indugiare sugli approfondimenti. La teoria dell’inconscio freudiana può essere considerata come una delle grandi rivoluzioni epistemologiche della storia, al pari dell’eliocentrismo e dell’evoluzionismo. La psicologia del profondo comincia ad essere una specie di urgenza filosofica già nel XIX secolo ma con gli inizi del ‘900 arte e scienza, letteratura e filosofia si interrogano con maggiore attenzione sui misteri nascosti della psiche.
Prima che lo stesso Freud articolasse con la sua enorme produzione letteraria i contenuti della sua teoria, nello straordinario fermento culturale Viennese cominciano a farsi notare, il pittore Gustav Klimt e il coetaneo medico e scrittore Arthur Schnitzler, (autore di “Doppio sogno”: libro su cui si baserà la trama del film di Kubrik “Eyes Wilde Shut”). I due anticiparono Freud soprattutto nella ricerca delle emozioni profonde della psicologia femminile: lo scrittore utilizzando la tecnica del “monologo interiore” e il pittore cercando di esprimere nelle sue opere gli argomenti tabù della sessualità e della aggressività (temi freudiani per eccellenza) e soprattutto il tema degli opposti amore e morte.
Klimt fu un innovatore assoluto malgrado il suo stile si rifacesse all’ Art Nouveau e fu proprio la necessità filosofica di rappresentare la donna nella sua espressione sessuale, intima, nascosta, a spingerlo verso la modernità (Modernismo). Le sue donne ritratte sono seducenti e aggressive, incutono ad un tempo inquietudine e fascino erotico, creature possenti e fragili rappresentano il segno di una emancipazione incombente. I suoi disegni, a differenza delle pitture, non risentono dello stile appiattito, bizantino, decorativo che le caratterizzava con risultati sorprendenti e meravigliosi, sono impudicamente realisti. Nude, sole, assorte o sognanti, in pose sfacciatamente autoerotiche, consegnano all’osservatore il mondo interiore del femminino come nessuno prima di lui era riuscito a fare. I suoi disegni aprono ad una considerazione della donna di fatto moderna, femminista si potrebbe dire.
Accano a Klimt si posero i giovani Kokoschka e Schiele che ne furono ampiamente influenzati per poi criticarlo e superarlo negli intenti espressivi (Espressionismo). L’urgenza di cogliere le profondità della psiche e quindi la realtà profonda della natura umana li condusse lontano da ogni intento decorativo e gli scopi conoscitivi superarono, nelle loro opere, qualsiasi tentazione estetica accattivante. Dipinsero spesso loro stessi tentando quindi ciò che oggi chiameremmo autoanalisi. Disegni e pitture al servizio della conoscenza, psicanalisi in forme artistiche. La Vienna dei primi del novecento fu il centro culturale dell’occidente dove scienza, filosofia e arte si trovarono a percorrere la stessa strada della conoscenza come mai prima di allora.
La percezione
Abbiamo già scritto (precedente articolo) di quanto la scienza moderna abbia camminato con la “freccia esplicativa rivolta verso il basso”, ne abbiamo sottolineato limiti e successi e ancora oggi il metodo resiste e ci porta sempre più nei pressi di verità provvisorie. Il metodo quindi funziona, tanto che nel XX secolo l’arte ne ha fatto pienamente uso e tesoro. “(…) gli scienziati usano il riduzionismo per risolvere un problema complesso, mentre gli artisti lo sfruttano per suscitare una nuova risposta percettiva ed emotiva in che guarda” (Kandel 2016).
Un precursore della riduzione delle immagini a forme più elementari – anche innovatore per quanto concerne luce e colori, tanto da influenzare moltissimo il movimento impressionista – fu J.M.W. Turner. Fu forse il primo, insieme a Monet, a passare da una pittura paesaggistica ricca di particolari e suggestiva (Il molo di Calais – 1802) ad una pittura astratta dove gli elementi figurativi si riducono fino a sparire, per esempio lasciando al posto di una nave la linea dell’albero, dentro un vortice di colori (Tempesta di neve – 1842) che offre allo spettatore la facoltà di comprendere, forse ancor più sensibilmente, la forza delle acque, del vento e della pioggia.
Uno dei motivi, più strettamente contingente, per cui i pittori di fine ottocento tentarono nuove forme per la loro pittura fu la fotografia: la capacità di questa tecnologia di fermare l’istante e con questo raggiungere un realismo assoluto non era paragonabile a nessun tentativo di farlo con disegni colori e pennelli. Ma non serve in questa sede approfondire questo argomento, basti averlo menzionato.
Il vero pioniere dell’astrattismo è Wassily Kandinsky (da me apprezzatissimo). Con lui la pittura è pura ricerca e filosofia della forma, l’estetica è il prodotto di composizioni di linee, di punti, superfici e colori, della sovrapposizione di questi elementi e nella loro percezione. Ecco che la percezione diventa l’oggetto di studio e motore dell’opera dell’artista. Kandinsky insegnò al Bauhaus (scuola d’arte e design ideata da Walter Gropius, ebbe una influenza enorme su tutti i movimenti di innovazione, soprattutto nel design e nell’architettura moderni) e fu autore di due libri importantissimi e anche di opere teatrali sperimentali.
Nella prefazione al suo “Punto Linea Superfice” chiarisce il suo impegno: “(…) I problemi della scienza dell’arte, che in una fase iniziale erano stati impostati in un ambito strettamente e volutamente limitato, oltrepassano, nel corso conseguente del loro sviluppo, i limiti della pittura, e, infine, i limiti dell’arte in generale. Qui io tento solo di fissare qualche freccia di direzione – un metodo analitico che tiene conto dei valori sintetici. (Dessau 1926)”.
Fu indubbiamente influenzato da Cezanne e dai cubisti (Braque e Picasso) che cercarono di porsi davanti alla realtà con spirito scientifico-analitico ma che non ebbero il coraggio di giungere all’astrattismo nel timore che la loro pittura potesse apparire come “qualcosa di puramente mentale senza più rapporto con la realtà”.
Si racconta anche che Kandinsky fu spinto verso l’astrattismo dalla musica atonale di Arnold Schonberg che fu egli stesso pittore e che realizzò attraverso gli autoritratti il suo personale passaggio dal figurativo all’astratto: con il metodo del ridurre sempre più la chiarezza delle forme sfidava l’osservatore ad immaginare ed interpretare le sue intenzioni.
Kandinsky teorizzò sistematicamente e praticò nella sua arte, con risultati stupefacenti, il riduzionismo con la ferma intenzione di andare oltre i limiti della pittura, cercando i motivi più profondi della percezione umana. Insomma ebbe l’intuizione, confermata dalla scienza moderna, che allo spettatore bastano simboli e colori per associare la vista ad immagini, idee ed emozioni nascoste nella propria memoria.
Con l’olandese Piet Mondrian si assiste ad una vera e propria radicalizzazione del riduzionismo: solo linee orizzontali e verticali e colore. Trascuro l’intento misticheggiante della rappresentazione della realtà che riteneva basilare per il suo approccio riduzionista; ciò che mi piace sottolineare è ancora una volta la volontà di lasciare all’osservatore la possibilità di immergersi nell’opera e tramite un processo ri-creativo giungere ad una soggettiva percezione della visione. Interessante notare che gli studi di David Hubel e di Torsten Wiesel (neuroscienziati della visione, insigniti del premio Nobel, insieme a Roger Sperry) segnalarono una base biologica per il linguaggio riduzionista di Mondrian. Scoprirono che le cellule nervose della corteccia visiva primaria rispondono in principio a linee orizzontali, verticali ed oblique che, assemblate nelle aree superiori danno poi origine alle immagini e rappresentazioni. Anche Semir Zeky (eminente neuroscienziato della visione) ebbe a dire che in fondo la sua ricerca e le sue conclusioni non erano dissimili da quelle di Mondrian.
Il fatto che l’arte astratta permetteva di offrire agli osservatori un forte impatto emotivo e una grande libertà di percezione, ebbe una fortuna immensa che dura fino ad oggi. Cronologicamente dovremmo parlare di De Kooning, Pollock, Rothco, la cosiddetta Scuola di New York, per poi proseguire incessantemente fino ai nostri giorni, trovando centinaia di artisti originali e interessanti ed opere di straordinaria bellezza. Ma adesso possiamo fermarci credendo di aver giustapposto gli essenziali passaggi innovativi della storia dell’arte come conoscenza, del rapporto fra arte e scienza. Il tempo di un fecondo rapporto fra arte e scienza è oggi, ancor più di ieri e vi saranno ancora altri articoli che ne esamineranno i contenuti.
Letture
- Jean-Pierre Changeux – Neuroscienze della bellezza – Carocci editore – 2018
- Jean-Pierre Changeux – Il Bello, il buono, il vero – Cortina editore – 2013
- Semir Zeky – Splendori e miserie del cervello – Codice edizioni – 2010
- Arthur Schnitzler – Doppio sogno – Adelphi – ed. 1999
- Sigmund Freud – L’interpretazione dei sogni – BUR – 2010
- Jonah Lehrer – Proust era un neuroscienziato – Codice edizioni – 2008
- Erik K. Kandel – L’età dell’inconscio – Cortina editore – 2012
- Erik K. Kandel – Arte e neuroscienze – Cortina editore – 2017
- Wassily Kandinsky – Punto Linea Superficie – Adelphi – ed. 2003