redazione
Nonostante l’argomento non sia pienamente inquadrabile nell’ambito terzista, mantenendo le stesse motivazioni dell’articolo di Giorgio Frabetti, torniamo ad approfondire la scelta della vaccinazione. Ci avvaliamo questa volta della competenza e delle capacità espositive del prof. Luigi Pelliccia per continuare ad affinare gli aspetti inerenti la tutela del lavoro e dei lavoratori.
Premessa – Il contesto
Il dibattito avviato sull’obbligatorietà o meno del vaccino anti-Covid nei luoghi di lavoro (recte, sulla possibilità per il datore di lavoro di imporre ai propri dipendenti un obbligo vaccinale), con ogni conseguente correlazione, si fa sempre più serrato, coinvolgendo autorevoli giuristi ed esperti del settore e scivolando anche in campi paralleli come quello politologico, sociologico, epidemiologico.
Come di norma accade in queste situazioni, si fronteggiano due opposti schieramenti: da un lato, i fautori della legittimità di un obbligo in tal senso, ricavabile de iure nella vigente normativa in materia di sicurezza sul lavoro (senza la necessità di una specifica declinazione in tal senso da parte di una disposizione ad hoc); dall’altra, coloro che sostengono che una tale possibilità, non essendo appunto prevista da una norma di legge specifica (eventualmente anche temporaneamente legata all’emergenzialità pandemica), violerebbe ex abrupto l’art. 32 Cost.
Parimenti, altrettanto frequente è la circostanza che un dibattito di tal guisa possa generare anche posizioni fortemente condizionate da quella che comunemente è definita “ortodossia giuridica” e sul cui correlato piano si muovono i relativi “sacerdoti”.
Il tema, stante la sua “sensibilità” (all’evidenza, tipica della materia lavoristica in generale e di quella prevenzionistica-previdenzialistica in particolare), si presta ad un tale confronto e, fatti ovviamente salvi i maggiormente apprezzabili punti ed elementi di utilità (e di corretta divulgazione dei sottesi profili), spesso scivola in confronti sterili, aumentando così il rischio di degradare verso un piano distante dal fulcro della vera problematica di fondo.
Senza tra le altre sottacere la naturale trasversalità del tema (anch’essa tipica delle materie lavoristiche) che va inevitabilmente ad incidere su altri crinali del diritto positivo, spesso sottovalutati ovvero ritenuti secondari e, proprio per questo, interessati da rigurgiti di “orgoglio giuridico”.
Mettendo per un momento da parte ogni altra (e, fors’anche, più ampia) valutazione di fondo, il presente intervento prova a muoversi in un contesto diverso o quanto meno con un approccio diverso rispetto alla maggior parte dei commenti allo stato prodotti.
La diversificazione mutua dal tentativo di affrontare la tematica che in questa sede ci occupa provando a rimanere il più possibile indenni da facili suggestioni, tipo quella per la quale (come abbiamo assistito) la problematica sulla presenza in capo al datore di lavoro della richiamata potestà di rendere obbligatoria la vaccinazione anti-Covid si sposta radicalmente a valle, concentrandosi sul “tema dei temi” del diritto del lavoro: il licenziamento.
Per procedere con questo ragionamento è utile proporre preliminarmente una interessante tabella comparativa sull’obbligo di vaccinazione sui luoghi di lavoro -e le relative conseguenze- frutto di uno studio effettuato su 36 paesi e che, per ovvia semplificazione, viene evidenziato tra i sei più tradizionalmente noti. Del resto, non solamente in Italia è affrontata la questione relativa al vaccino anti-Covid negli ambienti lavorativi, atteso il fatto che l’emergenza pandemica, seppur in modo diverso e con altrettante diverse misure, è un problema globale.
Più in generale, nei 36 paesi di cinque continenti oggetto della ricerca non c’è un obbligo di vaccinazione generalizzato, anche se in alcuni di questi se ne sta ipotizzando l’introduzione per alcune categorie di lavoratori.
La ricerca fornisce anche indicazioni su altri due importanti aspetti della tematica che ci occupa: la somministrazione di test anti-Covid e l’incentivazione da parte del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti.
Se appaiono diversi gli approcci con riguardo al primo aspetto, in via generale non vi sono invece problemi sull’incentivazione alla vaccinazione da parte dei lavoratori, sebbene una tale decisione potrebbe facilmente rischiare di scontrarsi con il principio di uguale trattamento e non discriminazione.
Un ultimo aspetto che emerge dalla ricerca è quello dell’eventuale rifiuto della vaccinazione per motivi religiosi ovvero legati a scelte, stili e regimi di vita e, quindi, anche ai conseguenti limiti di intervento da parte sia dei datori di lavoro, sia dei legislatori nazionali al fine di non discriminare tali lavoratori sulla base della loro fede religiosa o di altre convinzioni etiche.
Un ulteriore richiamo preliminare va fatto con riguardo alla sorveglianza sanitaria eccezionale, da intendersi quale misura connessa allo stato emergenziale finalizzata esclusivamente alla prevenzione del rischio da contagio.
Con il recentissimo decreto c.d. milleproroghe è stato prorogato fino al 30 aprile 2021 l’art. 83 del d.l. 34/2020 (c.d. Decreto Rilancio), il quale ha disposto che, fermo restando quanto previsto dall’art. 41, d.lgs. 81/2008 (Testo Unico sulla Sicurezza sul lavoro), per garantire lo svolgimento in sicurezza delle attività produttive e commerciali in relazione al rischio di contagio da virus SARS-CoV-2 i datori di lavoro pubblici, con oneri a proprio carico, “assicurano la sorveglianza sanitaria eccezionale dei lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio, in ragione dell’età o della condizione di rischio derivante da immunodepressione, anche da patologia COVID-19, o da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o comunque da comorbilità che possono caratterizzare una maggiore rischiosità”.
Sono pertanto esclusi da tale tipologia tutti gli altri rischi specifici della mansione così come da normativa in materia di lavoro.
Non può infine non farsi rilevare che, a prescindere da ogni altra e conseguente valutazione, allo stato la vaccinazione anti-Covid è strettamente confinata in una gestione pubblicistica della medesima, senza che i privati possano in via autonoma. A ben vedere si tratta però di un aspetto comunque superabile, atteso che l’eventuale trait d’union di assoluta garanzia (superando così ogni anche solo velato sospetto legato alla figura del datore di lavoro) sarebbe individuabile nel medico competente.
Obbligo/necessità/opportunità di vaccinazione
L’avvio del piano vaccinale generalizzato ha ob torto collo accelerato il dibattito sulla possibilità (e, quindi, anche un’eventuale liceità) di introdurre il vaccino anti-Covid nei luoghi di lavoro quale strumento per rendere questi ultimi covid free.
In questi termini, oltre a favorire un comportamento etico all’evidenza teso alla tutela della salute di lavoratori, clienti, fornitori e terzi soggetti che hanno accesso ai luoghi aziendali, in pieno e coerente rispetto dell’art. 2087 cod. civ., è ipotizzabile anche: scongiurare blocchi all’attività dovuti al contagio in azienda; agevolare la ripresa dell’attività a pieno regime; favorire la posizione sul mercato dell’azienda covid free, quale interlocutore preferenziale per clienti e fornitori.
L’eventuale introduzione del vaccino negli ambienti di lavoro verrebbe senza dubbio a rappresentare un virtuoso esempio di “etica solidaristica” e, quindi, ben tra l’altro potrebbe emergere la circostanza che il lavoratore che vi si sottoporrà lo farà con riguardo (anche) ai principi civilistici di correttezza e buona fede, rispettivamente previsti dagli artt. 1175 e 1375 cod. civ.
Ma proviamo a procedere per gradi.
Ai sensi dell’art. 32 Cost., nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
Già su questo primo, inconfutabile principio potremmo diversamente disquisire, atteso che la questione potrebbe all’evidenza porsi in maniera diversa tra la fattispecie riferita a un obbligo generale imposto per legge a tutti (ovvero a particolari settori di cittadini) e quella di un obbligo legato ad un rapporto giuridico, ai conseguenti diritti e doveri e ai suoi contenuti.
A ben vedere, infatti, se potrebbe sembrare quanto meno velleitaria l’ipotesi di introdurre per legge un’obbligatorietà -di carattere generale- di sottoporsi tout court alla vaccinazione, la cosa assume (o quanto meno potrebbe assumere) un diverso profilo nel contesto di un rapporto di lavoro, fors’anche prescindendo dall’introduzione di un’apposita previsione normativa.
La normativa vigente già contiene elementi di condizionamento della condotta richiesta ai datori di lavoro, dal momento che il legislatore ha ritenuto di ricondurre alla tipologia infortunio sul lavoro il contagio da Covid-19 contratto sul posto di lavoro o in itinere e, quindi, secondo le specifiche previsioni ex lege in materia assicurativa, in occasione di lavoro.
Del resto, per il lavoratore che è esposto al rischio di contagio sia per il tragitto che deve prevedere di fare, prima per recarsi al lavoro, poi ancora per rientrare nella propria abitazione (o comunque nell’ambito della sua sfera personale di vita), sia poi per il permanere a lungo nell’ambiente di lavoro (magari anche a contatto con il pubblico e/o soggetti terzi), il trattamento del contagio individuato ex lege quale infortunio, offre all’evidenza un livello di tutela (personale ed esteso ai familiari) sicuramente maggiore del trattamento previsto per la malattia “comune”.
Appare quindi all’evidenza come una soluzione compromissoria potrebbe fornire ampia utilità alla salvaguardia di entrambe le esigenze.
Come certamente si ricorderà, con l’art. 29-bis (“Obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da COVID-19”) del c.d. decreto liquidità (il n. 23/2020) -articolo inserito in sede di conversione dalla legge n. 40/2020- era stato disposto espressamente che: “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
Ma sul punto è possibile limitarci a ragione solamente con riguardo al richiamo dell’art. 2087 cod. civ. al fine di verificare se i datori di lavoro sono destinatari o meno di una facoltà o addirittura di un obbligo di sottoporre i propri dipendenti alla vaccinazione anti-Covid?
Evocare il solo art. 2087 è all’evidenza almeno parzialmente inadeguato e, quindi, la risposta alla domanda potrebbe essere più facilmente negativa.
Non dobbiamo però nondimeno dimenticare (o far finta di) che, indipendentemente dal dato e dalla situazione emergenziale, è evidente la necessità di un diretto confronto con il d.lgs. n. 81/2008, perché se così non facessimo correremo l’evidente (e anche grave) rischio di sottovalutare che detto TUSL, all’art. 279 (recentemente novellato alla luce della Direttiva UE/2020/739 del 3 giugno 2020, già recepita dagli artt. 4, D.L. 7 ottobre 2020, n. 125 -come convertito dalla legge 27 novembre 2020, n. 159 e 17, D.L. 9 novembre 2020 n. 149 inserito nell’art. 13-sexiesdecies del c.d. decreto Ristori -D.L. 28 ottobre 2020, n. 137 come convertito dalla legge 18 dicembre 2020 n. 176-) classifica la SARSCOV-2 quale patogeno per l’uomo del gruppo di rischio 3 e, al suo comma 2, impone al datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura dello stesso medico competente.
Va ovviamente da sé che il concetto di “messa a disposizione” del vaccino anti-Covid non è da solo sufficiente a rendere obbligatoria per i lavoratori la sottoposizione a tale vaccino, ma volendo andare più approfonditamente, è lo stesso art. 279, co. 2, a non limitarsi a prescrivere “la messa a disposizione di vaccini efficaci”, imponendo anche “l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’articolo 42”.
Com’è noto, quest’ultimo, a sua volta, stabilisce che il datore di lavoro attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.
In ragione di ciò, è ipotizzabile che il medico competente possa esimersi dall’esprimere un giudizio di inidoneità in un’ipotesi in cui il datore di lavoro, magari proprio su un precedente conforme parere del medico competente, abbia messo a disposizione il vaccino poi rifiutato dal lavoratore?
Orbene, non sembra quindi potersi mettere in discussione il fatto che l’art. 279, co. 2, d.lgs. n. 81/2008 faccia emergere all’evidenza sia il ruolo determinante del medico competente, sia un esplicito riferimento a “vaccini efficaci” e, quindi, a vaccini sottoposti alla responsabile valutazione delle autorità sanitarie pubbliche competenti riguardo la loro affidabilità medico-scientifica della loro somministrazione.
Non indifferente sul punto appare l’indiscutibile circostanza che siamo oramai dentro quella voluta e progressiva transizione da una sorveglianza sanitaria diretta a proteggere il singolo lavoratore a una sorveglianza sanitaria tesa all’ampliamento delle sue finalità alla tutela dei terzi, ivi incluse le altre persone presenti, lavoratori e no, espressamente richiamate più di una volta dal d.lgs. n. 81/2008, a partire dall’art. 20, co. 1, financo in una logica già tracciata dalla Corte Costituzionale e riferita all’obiettivo di “garantire e tutelare la salute (anche) collettiva attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale”.
A rafforzare questo concetto sovviene all’evidenza sia l’obbligo di cui all’art. 18, co.1, lett. g) e bb), d.lgs. n. 81/2008 che impone al datore di lavoro di vigilare sul rispetto degli obblighi del medico competente e di adibire i lavoratori alla mansione soltanto se muniti del giudizio di idoneità, sia, in via più in generale, il dovere imposto dall’art. 18, co. 1, lett. c), d.lgs. n. 81/2008 di tenere conto, nell’affidare i compiti ai lavoratori, “delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e sicurezza”.
Qualora dall’inosservanza di tali obblighi derivi un’infezione da Covid-19 è intuibile che possa sorgere a carico sia del datore di lavoro sia del medico competente le ipotesi di cui agli artt. 589 e 590 cod. pen. rispettivamente omicidio colposo e lesione personale colposa.
Nondimeno analoghe riflessioni vanno fatte, sempre in relazione agli ambienti di lavoro (privati o pubblici che siano) caratterizzati dalla presenza continuativa di persone non riconducibili nell’accezione giuridica di “lavoratori” che ci dà l’art. 2, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 81/2008, anche in ragione del fatto che, come da insegnamento della Suprema Corte (v. Cass. n. 40721/2017), al fine di una adeguata elaborazione del DVR si rende necessaria (anche) la segnalazione dell’esigenza di attivare la vaccinazione delle persone non riconducibili nell’ambito dei lavoratori, ma presenti nei luoghi di lavoro e magari da assistere in quanto prive in tutto od in parte di autonomia.
Analogo ragionamento in relazione alle previsioni di cui all’art. 26, d.lgs. n. 81/2008, secondo il quale il datore di lavoro che affidi a un’impresa appaltatrice o a un lavoratore autonomo l’esecuzione di un lavoro o di un servizio o di una fornitura nel proprio ambito aziendale, è tenuto (sicuramente non a sottoporre i dipendenti dell’impresa appaltatrice o il lavoratore autonomo a sorveglianza sanitaria e, quindi, in parte qua, se del caso a vaccinazione, ma) a elaborare il DUVRI contenente le misure contro i rischi da interferenze (ivi inclusa quindi anche la necessità di vaccinazione) e a vigilare sull’effettiva osservanza di tali misure da parte dell’impresa appaltatrice o del lavoratore autonomo.
Punctum pruriens della sottile problematica è quindi la collocazione da dare al vaccino, nel senso se lo stesso possa definirsi o meno una misura di sicurezza del lavoro, trattandosi, di norma, di una misura contro un rischio generalizzato per la salute pubblica che non ha alcun nesso causale con l’attività lavorativa fuori dall’ambito del lavoro sanitario.
Ed è da questa evidente dicotomia che emerge prepotentemente il ruolo di garanzia (recte, di bilanciamento) previsto dall’art. 32 Cost. che farebbe ricondurre il tutto alla necessità di una legge ad hoc (ritenuta tipicamente necessaria nell’ambito sanitario “comune”, non sussistendo in questo, iure condito, alcuna obbligatorietà).
Un ulteriore rischio, legato all’evidenza alla teoria più strettamente legata alla necessarietà di criteri devolutivi ex art. 32 Cost., è quello di scivolare in una lettura geocentrica del mondo del lavoro che ha le sue peculiarità sebbene all’interno del più ampio e complesso diritto civile.
Secondo un noto insegnamento della Corte di Cassazione, «le misure di sicurezza vanno attuate dal datore di lavoro anche contro la volontà del lavoratore», ritenendo doverosi gli accertamenti sulla salute dei lavoratori in determinati casi specifici, come ad esempio nel caso delle indagini sulla sieropositività da HIV sui lavoratori impegnati in mansioni che possono comportare rischio di contagio per i terzi, stabilendo che il rifiuto del lavoratore a sottoporsi alla vaccinazione oltre ad avere un rilievo penale in relazione a quanto prevede l’art. 20 del d.lgs. n. 81/2008, impone anche al datore di lavoro l’attivazione di una procedura disciplinare (art. 7, l. n. 300/1970) che in tale fattispecie diventa doverosa.
In casi simili, il legislatore è intervenuto imponendo un obbligo di legge per la vaccinazione di alcune categorie di lavoratori impegnati nello svolgimento di una determinata attività di lavoro in quanto esposti ad uno specifico rischio biologico, come nel caso del vaccino per il tetano (di cui è stato introdotto l’obbligo con la legge 5 marzo 1963, n. 292) o per la tubercolosi (BCG) ai sensi della legge 23 dicembre 2000, n. 388.
Da quanto sopra possiamo eventualmente giungere alla determinazione che, nonostante la (indiscutibile) riserva di legge posta dalla Costituzione, il datore di lavoro può esigere dai (id est, imporre ai) propri dipendenti la vaccinazione anti-Covid quando essa sia concretamente possibile?
Una premessa sul punto appare doverosa.
Se vogliamo coerentemente rimanere nell’interpretazione più stringente della previsione di cui all’art. 32 Cost. con riguardo all’obbligo di vaccinazione contro il Covid-19, non possiamo però esimerci dal ragionamento fatto riguardo la medesima norma per la sua interpretazione e applicazione nel più ampio contrasto alla pandemia.
In specie nel corso del 2020, abbiamo infatti assistito (più o meno silenti -o fors’anche rassegnati-) a una sorta di “trattamento sanitario obbligatorio”, capace tra le altre di limitare fortemente i diritti costituzionali di libera circolazione, di associazione, di manifestazione del pensiero, dell’istruzione, ecc. e non sicuramente per legge, ma per atti regolamentari, nella specie decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Pur potendo apparire come ragionamento polemico, capzioso o ancora irto di bizantinismo, l’aver accettato una tale gestione giuridico-costituzionale dell’attualità (rendendoci sicuramente conto che si trattava di un ragionevole e proporzionato compromesso riguardo all’evidente minaccia pandemica a cui la collettività era esposta), potrebbe non essere peregrino considerare legittimo (recte, costituzionalmente orientato) il comportamento dei datori di lavoro che, nell’esercizio di un potere/dovere loro attribuito dal sottostante contratto, accetta di recepire le indicazioni provenienti dalla comunità scientifica circa l’utilità della vaccinazione come misura di protezione individuale e collettiva nell’azienda e richiede pertanto ai propri dipendenti di sottoporsi a vaccinazione anti-Covid.
Seguendo il ragionamento sul punto fatto dal prof. Ichino, un’ipotesi del genere sarebbe possibile sulla scorta di tre correlati argomenti:
1. come quasi tutti i diritti assoluti della persona, anche la libertà di sottoporsi o no alla vaccinazione anti-Covid è suscettibile di limitazione di fonte contrattuale, pur in assenza di una legge che disciplini specificamente la materia e, quindi, un dovere di vaccinarsi e/o di dotarsi della relativa certificazione può legittimamente derivare non soltanto dal contratto di lavoro, bensì anche da quello di trasporto, o di albergo, o di ristorazione, così come dal quasi-contratto che tacitamente si instaura tra un centro commerciale e chi entra nei suoi locali;
2. la comunità scientifica internazionale è pressoché concorde circa la necessità urgente di combattere la pandemia da Covid-19 mediante la vaccinazione di massa, considerando molto più gravi i rischi derivanti dal perdurare della pandemia stessa che quelli di eventuali effetti indesiderati dell’inoculazione del vaccino; le autorità sanitarie competenti e il Governo condividono l’auspicio che la vaccinazione di massa possa avvenire al più presto e con il massimo possibile di estensione;
3. quand’anche il singolo datore di lavoro, in relazione alle caratteristiche dell’organizzazione del lavoro nella propria azienda, con l’assistenza del medico competente, ravvisi nella vaccinazione anti-Covid una misura utile per ridurre apprezzabilmente il rischio specifico di trasmissione dell’infezione a causa del contatto tra le persone in seno all’azienda, egli ha il potere/dovere contrattuale – e non solo – di adottare questa misura, consigliata dalla scienza e dall’esperienza, ed esigerne il rispetto da parte dei dipendenti come parte dell’obbligazione contrattuale gravante su di loro, fatte salve quelle situazioni in cui vi sia un motivo giustificato che sconsigli a una determinata persona di sottoporvisi.
In questa ottica, quindi, l’inerzia del legislatore nulla toglie alla possibilità che un dovere di vaccinazione nasca da un contratto tra soggetti privati.
Del resto, ad un ragionamento simile si giunge nel momento in cui, sebbene vi sia un espresso rinvio del relativo obbligo operato da parte del già richiamato art. 29-bis, D.L. n. 23/2020, sotto il profilo organizzativo e funzionale della gestione dell’emergenza pandemica negli ambienti di lavoro, il 24 aprile 2020, dalle Parti Sociali, è stato sottoscritto un apposito Protocollo che, a detta di molti, qualora rivisto in tal senso, potrebbe rappresentare la “chiave di volta” dell’intera querelle.
Interessante, sotto il profilo della cointeressenza tra pubblico e privato (nella specie, tra Regione e associazioni datoriali), anche in chiave evolutiva, è sicuramente il protocollo d’intesa che la Regione Lombardia ha sottoscritto con Assolombarda e l’Associazione dei Medici Competenti, recepito dall’ente nella delibera della Giunta n. XI/4401 del 10 marzo 2021.
L’intesa in esame costituisce un ulteriore canale di somministrazione delle vaccinazioni anti-Covid che non supera le priorità individuate a livello nazionale e i criteri previsti nel Piano Regionale Vaccini che rimangono integralmente confermate e rispettate anche a seguito dell’avvio delle attività di cui al presente provvedimento in esame.
Il piano si rivolge ai lavoratori con residenza o domicilio nel territorio lombardo e pertanto iscritti al servizio sanitario regionale della Lombardia, fermo restando che tale indicazione potrà essere aggiornata in relazione a eventuali ulteriori determinazioni a livello nazionale e prevede la somministrazione del vaccino esclusivamente sul territorio della Regione Lombardia. Sull’intesa in esame è scaturita immediatamente una polemica, atteso il fatto che non sono state coinvolte le organizzazioni sindacali dei lavoratori.
I punti salienti
PRINCIPI GENERALI L’attività di vaccinazione dei lavoratori delle attività produttive lombarde effettuata in azienda attraverso la disponibilità del medico competente costituisce iniziativa di sanità pubblica, rivolta alla tutela del cittadino, e si inserisce nella offerta complessiva alla popolazione lombarda, nel rispetto delle priorità definite negli atti di indirizzo nazionali e regionali. PRESUPPOSTI ALLA REALIZZAZIONE DEL PROGETTO 1. la disponibilità dell’azienda, ovvero del datore di lavoro 2. la disponibilità del medico competente 3. l’adesione volontaria del lavoratore alla campagna vaccinale effettuata in azienda 4. la disponibilità di vaccini da parte del SSR in relazione alle forniture garantite dalla struttura commissariale 5. la comunicazione, da parte delle associazioni datoriali, delle aziende aderenti alla ATS e alla ASST di riferimento territoriale che dovranno darne immediata comunicazione al Comitato Esecutivo al fine di organizzare correttamente la somministrazione e l’approvvigionamento dei vaccini. REQUISITI NECESSARI ALLA SOMMINISTRAZIONE IN AZIENDA 1. Le aziende dotate di struttura organizzativa adeguata garantiscono all’interno delle unità locali di appartenenza la disponibilità di: 2. uno spazio idoneo alla somministrazione del vaccino 3. spazi per accessi scaglionati 4. aree per la permanenza post-vaccinazione 5. Gli ambienti destinati alla somministrazione del vaccino dovranno garantire gli standard di sicurezza minimi e prevedere, tra gli altri, dispositivi medici adeguati al tipo di vaccinazione previsto nella seduta, di materiali per la disinfezione e di kit di primo soccorso per eventuali reazioni allergiche, compreso il carrello delle emergenze per la gestione delle reazioni gravi/gravissime. 6. È assicurata la disponibilità di soluzioni informatiche per la registrazione di tutti i dati obbligatori per assolvere al debito informativo nei confronti delle strutture centrali (regionali/nazionali) 7. Il personale coinvolto nella campagna di vaccinazione - medico competente coadiuvato da altro personale sanitario incaricato – è formato, anche attraverso la condivisione di materiale informativo, in stretta collaborazione con gli organismi regionali: Regione Lombardia rende disponibili a tal fine le modalità di accesso al corso previsto da ISS. MODALITÀ DI REALIZZAZIONE La campagna è svolta in un tempo che è quello strettamente necessario alla sua realizzazione per tutti i lavoratori aderenti. L’azienda organizza il reclutamento alla vaccinazione, ovvero raccoglie le adesioni dei lavoratori che intendono vaccinarsi in azienda previa informazione resa in collaborazione con le organizzazioni sindacali aziendali. L’attività è erogata nel rispetto delle indicazioni di sicurezza e di tutela degli operatori e dei soggetti da vaccinare, con particolare riferimento a: - informazione circa la somministrazione del vaccino e sue conseguenze, - raccolta dell’anamnesi; - acquisizione del consenso informato; - verifica delle condizioni di salute ai fini di un’appropriata somministrazione del vaccino. Il medico competente si riserva di escludere dalla campagna vaccinale in azienda quei cittadini/lavoratori la cui anamnesi renda più opportuna la somministrazione in ambiente sanitario protetto, rinviando al centro vaccinale di riferimento la relativa presa in carico; - tempestiva registrazione dei dati relativi alle singole vaccinazioni espletate SIAVR o in accordo con il centro vaccinale di riferimento; - vigilanza di eventuali reazioni avverse successive alla somministrazione del vaccino; - registrazione delle reazioni avverse e successivo invio ai sistemi di gestione della farmacovigilanza. Il medico competente che presiede la somministrazione vaccinale assume la responsabilità di tutto il percorso vaccinale e in particolare: - della verifica sulla corretta conduzione dell'operatività (adesione ai protocolli, applicazione delle regole di buona pratica vaccinale, ecc.); - della garanzia in merito all'approfondimento informativo per una consapevole adesione all’offerta vaccinale - del pronto intervento in caso di emergenza ed esercita ogni altra funzione che contribuisca ad assicurare il regolare svolgimento dell'attività
Una delle discussioni più frequenti di quest’ultimo (invero sempre più lungo) periodo emergenziale è senz’altro quella legata alle criticità sottese alla controversa questione del piano pandemico nazionale, com’è noto, strumento strategico di fondamentale importanza per intervenire in modo efficace e coordinato in questi tipi di emergenze sanitarie.
In questa strategia il Ministero della salute ha recentemente pubblicato il nuovo “Piano strategico – operativo nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale (PanFlu 2021-2023)” (in Gazzetta Ufficiale 29 gennaio 2021, n. 23, S.O. n.7), una volta averlo definitivamente condiviso in seno alla Conferenza Stato-Regioni e Province Autonome.
Il piano, associato all’acronimo PanFlu, è teso a definire il quadro articolato delle principali azioni da intraprendere per prepararsi correttamente a un’eventuale pandemia influenzale e gli strumenti per la prevenzione, l’identificazione rapida e monitoraggio epidemico, la cura e il trattamento dei pazienti contagiati, limitando il rischio di contagio per gli operatori sanitari e per i cittadini.
In buona sostanza, si tratta di un insieme di linee guida che, sebbene rivolte in primo luogo alle strutture sanitarie pubbliche, vanno comunque ad individuare anche alcune misure generali per i datori di lavoro, al fine di tutelare la salute dei lavoratori e, al tempo stesso, assicurare anche la continuità aziendale.
L’obiettivo fondamentale del Piano è quello sia proteggere la popolazione, riducendo il più possibile il potenziale numero di casi e di vittime della pandemia in Italia e nei cittadini italiani che vivono all’estero, sia di preservare il funzionamento della società e delle attività economiche.
Nella c.d. fase inter-pandemica, nei sei mesi successivi all’approvazione del Piano ciascuna Regione e provincia autonoma dovrà a sua volta approvare un piano strategico-operativo regionale attuativo, di preparazione e risposta a una pandemia influenzale, in linea con il Piano Nazionale, impegnandosi a darne attuazione nei 120 giorni successivi.
Una parte importante del Piano in esame interessa anche i datori di lavoro (sia pubblici che privati) per quanto riguarda la tutela della salute negli ambienti di lavoro; nell’appendice, infatti, si rileva un insieme di misure generali che si basano su alcune direttrici fondamentali.
La prima è che l’adozione delle misure di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori devono tenere conto anche dei possibili scenari di emergenza pandemicae devono partire da «…una attenta valutazione dei rischi per la salute e sicurezza per giungere ad una programmazione delle misure di prevenzione e alla pianificazione degli interventi necessari affinché qualsiasi lavoratore possa adottare le misure idonee per evitare le conseguenze dovute all’esposizione a rischi specifici».
Nel Piano viene ulteriormente sottolineato che, per effetto di quanto prevede il d.lgs. n. 81/2008, il datore di lavoro ha «…l’obbligo di individuare i rischi generali e i rischi specifici connessi alle particolari modalità di esecuzione del rapporto di lavoro e predisporre le misure di prevenzione e protezione adeguate…».
Significativo sul punto è che questa valutazione dei rischi è funzionalmente collegata all’elaborazione di uno specifico piano aziendale di emergenza sanitaria, atteso che una pandemia influenzale «… può incidere negativamente sull’organizzazione aziendale…» e per tale regione «… è necessario che le aziende si preparino tempestivamente ad adottare piani di preparazione tenendo conto delle loro dimensioni, della loro specifica importanza economica e assumendosi le responsabilità delle strategie da adottare».
Si tratta quindi di una previsione che riguarda la generalità dei datori di lavoro in quanto «Tutte le attività lavorative possono essere esposte al rischio di infezione anche se con livelli variabili».
Rispetto a quanto sul punto già è stato messo in atto negli ambienti di lavoro in attuazione del protocollo di sicurezza anti-contagio (PSA) -che mutua dal Protocollo nazionale condiviso dalle parti sociali del 14 marzo 2020 e aggiornato il 24 aprile 2020- l’elemento forse innovativo è che nel PanFlu si punta l’accento sulla necessità che lo sviluppo del piano aziendale di emergenza sanitaria sia un’attività ordinaria riferita agli scenari d’influenza: «Prima dell’arrivo di una pandemia di influenza è necessario identificare il grado di esposizione del personale e verificare la disponibilità a svolgere l’attività lavorativa mediante soluzioni organizzative alternative, al fine di far fronte a un tasso di assenze elevato. A tal riguardo è indispensabile evidenziare le attività essenziali per l’azienda, i processi e i prodotti più importanti (prioritarizzazione/posteriorizzazione)».
Una precisazione appare però d’obbligo.
Dal punto di vista giuridico, le previsioni contenute nel Piano in esame sono di mera prospettiva, non potendosi infatti riconoscere alle stesse una valenza precettiva in quanto, almeno per il momento, il PanFlu non è richiamato da una legge o da un atto amministrativo come, ad esempio, un D.P.C.M.
Due quindi le direttrici fondamentali del PanFlu: a) l’adozione di misure di protezione della salute dei lavoratori al fine di ridurre il rischio di contagio tra i dipendenti e garantire la continuità delle attività aziendali; b) la pianificazione delle risorse per consentire il lavoro in sicurezza e lo sviluppo di competenze specifiche affinché tutti siano preparati al meglio a svolgere i loro compiti in caso di pandemia.
Ma quali potrebbero essere le conseguenze nei confronti del lavoratore no wax?
Qualora si assista a rifiuto alla vaccinazione, sebbene questo possa (per le ragioni in precedenza evidenziate) ritenersi oggettivamente ingiustificato, la soluzione migliore potrebbe essere quella di sospendere il lavoratore, senza retribuzione, fino al definitivo superamento dell’emergenza pandemica, fatta ovviamente salva la presenza di possibili, diverse soluzioni organizzative.
A ben vedere, quindi, da un lato, potrebbe ritenersi non introduce un obbligo generale di vaccinazione che la legge non prevede, dall’altro i lavoratori renitenti potranno continuare nella loro decisione di non vaccinarsi, subendo la sola inibizione di accesso in un ambiente di lavoro nel quale la loro presenza è da considerarsi fonte di un maggior rischio per la salute altrui.
Analogo ragionamento può ovviamente farsi con riguardo ad altri rapporti contrattuali: ad esempio, quello di trasporto, di albergo o di ristorazione ovvero per l’accesso a spazi aperti al pubblico (ad esempio, supermercati o sale per spettacoli), dove la riserva di legge di cui all’art. 32 Cost. non vieta affatto che venga richiesto, come nell’ambito di qualsiasi altro rapporto di diritto privato, un certificato di vaccinazione.
In altre parole, anche in assenza di una legge ad hoc, possono quindi essere anche i rapporti contrattuali di natura privata a portare la più volte e da più parti evocata copertura vaccinale, atteso che laddove vi sia un concreto rischio per la salute delle persone, il contratto ben può ragionevolmente prevedere una tale misura di protezione, ovviamente qualora la stessa sia concretamente praticabile.
Conclusioni
Volendo tracciare alcune considerazioni conclusive emerge all’evidenza che, fatta salva ogni valida prospettiva sul campo d’indagine e approccio adottati, anche tenendo conto del (non trascurabile) fatto che, allo stato, la gestione della profilassi vaccinale è di esclusiva competenza pubblicistica (del SSN), non appare facile sopire il dibattito anche se, come abbiamo avuto modo di vedere, potrebbero comunque essere già presenti gli strumenti normativi per trovare il giusto equilibrio e contemperare così i contrapposti interessi e diritti. Normativa prevenzionistica, disposizioni codicistiche, protocolli nazionali anti-Covid, ruolo di garanzia del medico competente sono infatti tutti elementi in grado di assicurare in modo più che soddisfacente, e non solo nelle more di un (comunque auspicabile) intervento legislativo specifico, sia il rispetto delle garanzie individuali sia quello delle prerogative e obblighi datoriali, entrambi legate anche al legittimo affidamento dei terzi.
I PARALLELI PROFILI LEGATI ALLA TUTELA DEI DATI PERSONALI (PRIVACY) Un altro profilo di indubbia importanza legato in via parallela alle problematiche precedentemente analizzate è sicuramente quello legato alla tutela dei dati personali, in parte qua quelli sanitari del lavoratore. Emerge chiaramente come i provvedimenti fin qui adottati dal legislatore al fine dicontrastare il dilagante propagarsi del COVID-19 abbiano determinato significative ripercussioni sul piano della tutela dei diritti (anche) del lavoratore subordinato, non essendo in alcun modo in dubbio che quello della riservatezza (e della protezione) dei dati personali, riguardanti lo stato della propria salute sul luogo di lavoro, sia stato sottoposto a diverse tensioni regolative, in ragione dell'interesse generale alla tutela della salute pubblica. È nota la “naturale” compressione del diritto alla protezione dei dati personali a fronte della tutela della salute pubblica e, per quanto legato all’attualità, del controllo dell'evoluzione epidemiologica, sempreché però la stessa avvenga nel rispetto del principio di necessità e di proporzionalità (art. 23 Reg. UE n. 679/2026, il c,d, GDPR). A ben vedere, infatti, il GDPR ammette il trattamento dei dati personali, inclusi quelli relativi alla salute (ex art. 9, co. 1), anche senza il consenso dell'interessato ove sussistano: a) una (o più) finalità di interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell'Unione o degli Stati membri (art. 9, par. 2, lett. g, GDPR); b) una (o più) finalità di medicina preventiva o di medicina del lavoro, valutazione della capacità lavorativa del dipendente, diagnosi, assistenza o terapia sanitaria o sociale (art. 9, par. 2, lett. h); c) situazioni patologiche come, ad esempio, quella di una pandemia in corso (ipotesi cui il GDPR fa espresso riferimento al Considerando 46). Una chiara “ritrosia” al tema in esame la ritroviamo anche nei diversi “protocolli condivisi”, sottoscritti nei mesi di marzo e di aprile 2020 dalle Parti Sociali, i quali sebbene accomunati dalla dichiarata finalità di conciliare la prosecuzione delle attività produttive con la garanzia di condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro, non hanno affatto affrontato, nella relazione datore di lavoro-lavoratore, il tema della tutela della riservatezza. L’inevitabile conseguenza di una tale inerzia legislativa è stata la necessaria devoluzione al Garante per la privacy del compito di intervenire fattivamente su questioni delicate al fine di dirimere i casi più controversi. Almeno tre le questioni emergenti dalla crisi pandemica: a) l'acquisizione delle informazioni attinenti al contagio sui dati personali dei dipendenti; b) l'introduzione in azienda di sistemi di allerta e di tracciamento digitale ispirati a quelli sperimentati in alcuni ordinamenti asiatici; c) la raccolta (e il trattamento) dei dati sull'avvenuta (o meno) vaccinazione anti-COVID. Se, da un lato, è precluso al datore di lavoro il trattamento dei dati al di fuori dei casi in deroga, dall’altro la stessa cosa non può dirsi per il medico competente, il quale potrà conservare le informazioni raccolte durante la sorveglianza sanitaria in ordine alla misurazione o agli esiti del test sierologico o del tampone molecolare – trattandosi questi ultimi di mezzi diagnostici – o ancora dell’eventuale vaccino anti-Covid, in qualità di “autonomo titolare del trattamento”. Sulla, invero, delicata questione, il Garante della privacy, in data 10 agosto 2020 (nella sezione FAQ, seppur con riferimento all’istituzione di “piattaforme” di controllo) è giunto alla conclusione che i “(…) trattamenti di dati personali che, allo stato, possano vantare un'adeguata base giuridica, sono esclusivamente quelli che trovano il proprio fondamento in una norma di legge nazionale”. Ad ogni modo, dal ragionamento del Garante ne consegue che le strumentazioni che presentassero la medesima finalità, vale a dire il contrasto e la riduzione del contagio pandemico e la tutela della salute sul luogo di lavoro, ma fossero dotate di tecniche e metodologie neutre – tali da non comportare il trattamento di dati personali riferiti a soggetti identificati o identificabili – non sarebbero di per sé vietate, ove fossero utilizzate unicamente nel rispetto dell'assolvimento del dovere di sicurezza della parte datoriale. Ciò potrebbe avvenire nel caso di utilizzo di apparecchi che si interessano di conteggiare il numero delle persone; di dispositivi indossabili che emettono un avviso sonoro o una vibrazione in caso di superamento della soglia di distanziamento fisico; di rilevatori di immagini all'ingresso dei tornelli che consentono l'accesso solo ai lavoratori che indossano la mascherina, ecc. (FAQ 9 luglio 2020). Più recentemente il Garante è nuovamente intervenuto in parte qua affrontando, ovviamente dall’angolazione della tutela della privacy, il trattamento dei dati relativi alla vaccinazione anti-Covid nel contesto lavorativo, evidenziando quanto segue. Innanzitutto, il datore di lavoro non può chiedere ai propri dipendenti di fornire informazioni sul proprio stato vaccinale ovvero copia di documenti che comprovino l‘avvenuta vaccinazione anti-Covid, non essendo ciò consentito dalle disposizioni dell’emergenza e dalla disciplina in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, senza contare che il trattamento dei dati relativi alla vaccinazione non può ritenersi lecito sulla base del consenso dei dipendenti, non potendo detto consenso costituire in tal caso una valida condizione di liceità in ragione dello squilibrio del rapporto tra titolare e interessato nel contesto lavorativo (Considerando 43 del Regolamento). Il medico competente non può inoltre comunicare al datore di lavoro i nominativi dei dipendenti vaccinati, potendo solamente lui trattare i dati sanitari dei lavoratori e tra questi, se del caso, le informazioni relative alla vaccinazione, nell’ambito della sorveglianza sanitaria e in sede di verifica dell’idoneità alla mansione specifica (artt. 25, 39, co. 5, e 41, co. 4, d.lgs. n. 81/2008). Il datore di lavoro può invece acquisire, in base al quadro normativo vigente, i soli giudizi di idoneità alla mansione specifica e le eventuali prescrizioni e/o limitazioni in essi riportati (es. art. 18, co. 1, lett. c), g) e bb), d.lgs. n. 81/2008). Con specifico riguardo alla vaccinazione anti-Covid dei dipendenti quale condizione per l’accesso ai luoghi di lavoro e per lo svolgimento di determinate mansioni (ad es. in ambito sanitario), il Garante chiarisce che, nelle more di un intervento del legislatore nazionale che, nel quadro della situazione epidemiologica in atto e sulla base delle evidenze scientifiche, valuti se porre detta vaccinazione come requisito per lo svolgimento di determinate professioni, attività lavorative e mansioni, allo stato, nei casi di esposizione diretta ad "agenti biologici" durante il lavoro, come nel contesto sanitario che comporta livelli di rischio elevati per i lavoratori e per i pazienti, trovano applicazione le “misure speciali di protezione” previste per taluni ambienti lavorativi (art. 279 nell’ambito del Titolo X del d.lgs. n. 81/2008). Ed in tale quadro, solo il medico competente, nella sua funzione di raccordo tra il sistema sanitario nazionale/locale e lo specifico contesto lavorativo e nel rispetto delle indicazioni fornite dalle autorità sanitarie anche in merito all’efficacia e all’affidabilità medico-scientifica del vaccino, può quindi trattare i dati personali relativi alla vaccinazione dei dipendenti e, se del caso, tenerne conto in sede di valutazione dell’idoneità alla mansione specifica. Dal suo canto, il datore di lavoro dovrà invece limitarsi ad attuare le misure indicate dal medico competente nei casi di giudizio di parziale o temporanea inidoneità alla mansione cui è adibito il lavoratore (art. 279, 41 e 42, d.lgs. n.81/2008). Un discorso a parte va fatto invece con riguardo all’eventuale “collettivizzazione aziendale” dei test, sierologici o a mezzo tamponi, che, a ben vedere, rappresentano più linearmente presidi e dispositivi di gestione lavorativa dell’emergenza pandemica e che, quindi, ovviamente sempre nell’ambito della sorveglianza sanitaria della quale è garante il medico competente, ovvero in un ambito di relazioni e adesioni facoltative dei lavoratori, rimarrebbero all’evidenza al di fuori del più pregnante e problematico (in parte qua) perimetro delineato dall’art. 32 Cost. e che lo stesso Garante per la privacy non ritiene contrario alle regole sottese alla protezione dei dati personali (nella specie, sanitari).